Yoga Advaita Sahaja Tantra: non-dualità

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Panikkar definisce l’integralità come la terza dimensione della spiritualità indù. 

La vita si manifesta con molti aspetti, molte dimensioni e certamente possiamo differenziare, possiamo discernere le infinite esperienze che percepiamo ma, allo stesso tempo, non c’è nessuna vera separazione, non possiamo trovare nessuna divisione, nessun confine. Possiamo dire, forse semplificando un po’, che tutte le tradizioni indiane ruotano intorno al fatto che la vita non è frammentabile, non è separabile in compartimenti stagni: l’intuizione della non dualità è il cuore della spiritualità indù, anche di quelle tradizioni indiane dualiste, che la negano, ma nel negarla implicitamente la contemplano, la prendono in considerazione, riflettono su di essa.

Molto efficacemente Vimala Thakar, nella citazione seguente, mette in evidenza come, a livello concettuale, sia possibile separare la realtà, ma questo modo di vedere conduce alle tensioni, ai conflitti, e in ultima analisi è la radice della sofferenza:

Se frammentate la realtà scomponendola in materia e mente, prakriti e purusa, considerandoli come entità separate, se accettate l’autorità del dualismo, allora si creano le tensioni. L’”io”, il “me” e l’”altro”, l’accettazione del dualismo conduce alle tensioni e poi ai conflitti, allo sforzo e alla lotta per trovare un equilibrio tra i due, e sopraggiungono i samskara e si crea il vero inferno. Così si dimentica che la vita è indivisibile, è un’interezza non frammentabile. 

Vimala Thakar – Lo Yoga oltre la meditazione

L’intuizione che “la vita è indivisibile, è una interezza non frammentabile”, per usare la frase di Vimala Thakar, viene espressa nelle tradizioni spirituali indiane attraverso diversi termini: nel seguito rifletteremo su yoga, advaita, sahaja e tantra, mostrando come queste parole, apparentemente molto diverse, indichino in realtà uno stesso “gusto”, una stessa esperienza. Li tratteremo solo molto brevemente cercando di mettere in luce come non indichino quattro cose diverse, ma siano come quattro facce dello stesso purissimo diamante, attraverso il quale possiamo vedere e scoprire chi siamo veramente. La riflessione non vuole essere un puro esercizio intellettuale: occorrerebbe sentire, occorrerebbe accorgersi se qualcosa risuona in noi, se possiamo percepire, magari molto sottilmente, questo “profumo” di completezza, di totalità.

Ognuno di questi termini è altamente polisemico, possiede molti significati che si sono stratificati nei secoli: ad esempio se andate su un dizionario di sanskrito (ce ne sono anche on line) vedrete che la parola yoga ha una lista molto lunga di significati, alcuni dei dei quali non hanno molto a che fare con la spiritualità, come, ad esempio, mettere il giogo, imbrigliare un animale, oppure trucco, espediente.

Dal punto di vista spirituale il termine yoga ha due significati principali: il primo è metodo, come nelle locuzioni Raja Yoga, Hatha Yoga, Bhakti yoga, Karma yoga, ecc.; oppure, volendo fornire un esempio della tradizione Buddhista, e in particolare di quella Tibetana Nyingma, troviamo che le tre tradizioni contemplative più elevate sono definite con i termini Maha Yoga, Anu Yoga e Ati Yoga. 

Quindi yoga indica il metodo, la via, il procedimento seguito nel perseguire uno scopo, e allo stesso tempo, indica il frutto stesso del metodo, cioè un modo di essere, un modo di vivere, uno stato. Gerard Blitz, insegnante yoga e monaco Zen, nel libro “Yoga le regole del gioco”, definisce con chiarezza che:

La parola Yoga concerne uno stato. Uno stato di unità, uno stato senza separazione né divisione. Questo va detto subito per cominciare. Contrariamente all’immagine che di solito ci preme presentare quando si parla di Yoga, non si tratta di una tecnica, non si tratta di copiare una forma. …

Yoga è unicamente, esclusivamente un’esperienza. Per conoscerla non si può che viverla.

Ritroviamo qui esplicitati in una unica frase molto incisiva l’aspetto dello yoga come esperienza da vivere personalmente e quello di uno stato di integralità, di non separazione.

E inseparabilità è la traduzione a mio avviso più appropriata del termine advaita generalmente reso con non dualità. Raimon Panikkar, forse uno dei filosofi contemporanei che ha trattato più lucidamente il tema, lo rende con a dualità:

L’intuizione advaita non consiste nell’affermare l’unità né nel negare la dualità, ma precisamente, con una visione che trascende l’intelletto, nel riconoscere l’assenza della dualità alla base di una realtà che in se stessa manca di dualità, cioè non è numerica, dato che non ha un due. Ossia che né l’unità né la dualità corrispondono alla struttura propria della realtà. …

Non si nega la dualità (non dualismo) ma si constata l’assenza di questa dualità (a dualismo) … 

Raimon Panikkar – Il dharma dell’induismo. Una spiritualità che parla al cuore dell’occidente

Questo constatare l’assenza di dualità, questa intuizione di inseparabilità dei vari aspetti della realtà, porta con sé molte implicazioni, non solamente nel campo spirituale, ma anche in ambito etico, sociale, politico. Prima di tutto ci orienta verso un benessere personale profondo: più ci sono separazioni e divisioni e più c’è sofferenza.

Ad esempio, ognuno di noi può scoprire nella propria vita che ogni forma di conflitto e di violenza affonda le sue radici nel pensiero dicotomico, quello che in inglese si chiama black and white thinking. Bianco o nero, tutto o niente, sempre o mai, amore o odio, bene o male: più siamo abituati a pensare per coppie di opposti mutuamente esclusivi, tagliando in maniera netta la realtà, cancellandone la complessità, l’ambiguità, la mutevolezza, e ogni sfumatura, e più siamo intrappolati nella tensione, nel conflitto e, in ultima analisi, nella sofferenza.

Abbiamo visto all’inizio del capitolo come la dimensione del silenzio contemplativo è un aspetto centrale della spiritualità: nel silenzio facciamo esperienza di come tutte le dualità si dissolvono, scompaiono in modo naturale; viceversa, adottando un atteggiamento, un modo di vedere che non separa, e quindi non alimenta costantemente, in modo compulsivo, giudizi di valore e pensieri, questo ci permette di entrare con più facilità e semplicità nel silenzio.

Oltre che permetterci di uscire dal pensiero dicotomico, e di accedere con più facilità al silenzio, l’intuizione della non dualità ci insegna a vedere il mondo in termini di relazioni reciproche e non in termini di cose separate. Questo aspetto della non dualità è al cuore dell’insegnamento del Buddha: la sua formulazione più sintetica e forse, inizialmente, un po’ criptica è:

Essendo questo, quello è;

al sorgere di questo, quello sorge;

Non essendo questo, quello non è;

al cessare di questo, quello cessa.

Questa frase si trova moltissime volte nei discorsi del Buddha: essa nega che il mondo sia fatto di cose, di oggetti separati, a sé stanti, auto-esitenti, cioè nega il pensiero atomistico. Essa afferma invece che qualsiasi fenomeno, sia nel suo esistere, e sia nel suo divenire, nel suo sorgere e cessare, è sempre in relazione con altri fenomeni, esiste e si trasforma solo ed esclusivamente in relazione a circostanze, a condizioni.

In italiano questo modo di vedere viene definito in vari modi: originazione interdipendente, coproduzione condizionata, o semplicemente principio di condizionalità.

Joanna Macy, una degli esponenti più importanti dell’ecologia del profondo, nonché studiosa di buddhismo, molto efficacemente lo descrive nel modo seguente:

La condizionalità, ida paccayata, rappresenta un universo in divenire dove tutto è interconnesso e si influenza vicendevolmente.

Per approfondire e comprendere meglio possiamo farci aiutare dal maestro vietnamita Thich Nhat Hanh, sempre profondo e poetico; egli ha coniato la parola inter-essere:

Un poeta, guardando questa pagina, si accorge subito che dentro c’è una nuvola.

Senza la nuvola, non c’è pioggia; senza pioggia, gli alberi non crescono; e senza alberi, non possiamo fare la carta. La nuvola è indispensabile all’esistenza della carta. 

Se c’è questo foglio di carta, è perché c’è anche la nuvola. Possiamo allora dire che la nuvola e la carta inter sono. “Inter essere” non è riportato dai dizionari, ma, unendo il prefisso “inter” e il verbo “essere”, otteniamo una nuova parola: inter essere.

Nessuna nuvola, nessuna carta: per questo diciamo che la nuvola e il foglio inter sono.

Guardando più in profondità in questa pagina, vedremo anche brillare la luce del sole. Senza luce del sole le foreste non crescono. Niente cresce in assenza della luce solare, nemmeno noi. Ecco perché in questo foglio di carta splende il sole. La carta e la luce del sole inter sono.

Continuiamo a guardare: ecco il taglialegna che ha abbattuto l’albero e l’ha trasportato alla cartiera dove è stato trasformato in carta. Sappiamo che l’esistenza del taglialegna dipende dal suo pane quotidiano, quindi in questo foglio di carta c’è anche il grano che è finito nel pane del taglialegna. C’è altro: i genitori del nostro taglialegna.

Guardando in questo modo, comprendiamo che la pagina che stiamo leggendo dipende da quelle cose. Se guardiamo ancora più in profondità, vedremo nel foglio anche noi. Non è difficile capirlo: quando guardiamo un foglio di carta, il foglio è un elemento della nostra percezione. La vostra mente è li dentro, e anche la mia. Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la terra, la pioggia, i minerali del terreno, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il calore. Ogni cosa co esiste in questo foglio. “Essere” è in realtà inter essere: per questo dovrebbe trovarsi nei dizionari.

Non potete essere solo in virtù di voi stessi, dovete inter essere con ogni altra cosa. Questa pagina è, perché tutte le altre cose sono.

Per noi occidentali, questo implica un totale cambio di paradigma, un completo rovesciamento del nostro modo essere nel mondo. Forse potremmo pensare che è una “cosa” Buddhista, oppure Indiana, o anche orientale: in realtà è un sentire accessibile a tutti, in ogni momento, ed è un modo di vedere presente anche nel pensiero occidentale. Ad esempio Gregory Bateson, uno dei più brillanti e prolifici pensatori occidentali del secolo scorso, nel 1979, nella sua ultima conferenza, che rappresenta il suo testamento filosofico, affermò principalmente due cose: che la mente e il corpo non sono separati e che vedere il mondo in termini di cose separate è una distorsione, è più appropriato vederlo in termini di relazioni dinamiche. Egli concluse la sua conferenza dicendo:

Credo che forse la mostruosa patologia atomistica a livello individuale, a livello familiare, a livello nazionale e a livello internazionale – la patologia del pensiero sbagliato in cui tutti noi viviamo – possa alla fine essere corretta dalla grandiosa scoperta di quelle relazioni che sono contenute nella natura e che costituiscono la bellezza della natura.

Vedere il modo in termini di relazioni dinamiche ci permette di risuonare nuovamente con la “bellezza della natura”, con la meraviglia dentro e fuori di noi: il mondo torna ad essere un luogo sacro e incantato.

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