Riflessioni sullo Yoga in Italia

Riflessioni sullo Yoga in Italia e sul perché non rinnoverò l’adesione alla YANI

Lettera aperta al comitato direttivo della YANI, a tutti gli insegnanti della YANI, e a tutti i praticanti, insegnati, e simpatizzanti dello yoga, di qualsiasi orientamento e tradizione.

Le considerazioni che seguono chiariscono i motivi per cui non rinnoverò la mia adesione alla YANI (Yoga Associazione Nazionale Insegnanti), e, allo stesso tempo, hanno l’intenzione di promuovere una riflessione sulla natura e le caratteristiche della via di liberazione che definiamo genericamente con il termine Yoga, su come viene praticata e insegnata attualmente in Italia. Inizialmente volevo inviare una lettera esclusivamente alla YANI, ma poi ho compreso che quello che stavo scrivendo ha una valenza generale e quindi ho pensato di divulgare il più possibile il mio modo di vedere.

Nel 2000 un’amica insegnate di yoga mi ha parlato della YANI e mi ha proposto di farne parte: ho accettato di buon grado perché le idee e i propositi mi sembravano molto interessanti e condivisibili; ho iniziato quindi a collaborare, soprattutto per le attività concernenti la Liguria. Negli ultimi anni mi sono progressivamente allontanato e ho cominciato a riflettere sul senso della mia appartenenza all’associazione: certamente con un po’ di tristezza e a malincuore, ho dovuto ammettere che non mi riconoscevo più né nella prassi e né nella visione proposta dalla YANI.

In generale è risaputo che gli esseri umani, all’inizio, si aggregano con entusiasmo e autenticità per seguire ideali spirituali, politici, sindacali, o anche per fini pratici; e creano delle forme associative, che poi, nel tempo, diventano sempre più delle entità burocratizzate, vuote e a sé stanti, dove le finalità iniziali vengono dimenticate, perse o anche completamente sovvertite. Alla fine lo scopo primario dell’associazione diventa la continuazione di se stessa e/o il vantaggio dei pochi che la gestiscono, e le finalità e gli ideali iniziali rimangono solo come finzione. Mi spiace molto, però a me pare che la YANI abbia seguito esattamente questo cammino, e anche in modo molto rapido. All’inizio la YANI ha avuto certamente una funzione positiva e feconda per lo yoga in Italia, ma poi, negli ultimi anni, si è progressivamente sclerotizzata e burocratizzata, prendendo delle direzioni che, sia a livello pratico e sia a livello filosofico sono molto lontane dallo spirito autentico dello yoga.

Nel Tao Te Ching è scritto:

Quando il Dao va perduto appare la virtù; 

quando la virtù va perduta appare la benevolenza; 

quando la benevolenza va perduta appare la giustizia; 

quando la giustizia va perduta appare il rituale. 

Il rituale è solo il guscio esteriore della sincerità e l’inizio del disordine.

Il rituale, le regole, la burocrazia, l’organizzare, lo standardizzare, l’uniformare sono appunto la manifestazione, il sintomo lampante di aver perso l’autenticità, di aver perso il senso di un genuino cammino spirituale.

Nel 1929 Krishnamurti sciolse l'Ordine della Stella: il suo discorso è attuale più che mai e invito tutti a leggerlo e a riflettere. È possibile leggere la traduzione in italiano al seguente indirizzo http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/krishnamurti/senzasentieri.htm

Oppure, chi conosce l’inglese, può leggere il discorso originale che forse è più incisivo della traduzione

https://jkrishnamurti.org/about-dissolution-speech

Tra le altre cose disse:.

“Ricorderete la storia del diavolo e un suo amico che, camminando, vedono un uomo chinarsi, raccogliere qualcosa da terra e metterselo in tasca. L’amico chiese al diavolo: ‘Che cosa ha raccolto?’. ‘Un pezzo di Verità’, rispose il diavolo. ‘Un brutto affare per te ‘, disse l’amico. ‘Per niente!’, rispose il diavolo. ‘Aspetterò che la organizzi!’.

Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola. Questo è il mio punto di vista, e vi aderisco totalmente e incondizionatamente”

La cosa che ha inciso maggiormente sulla mia scelta di non aderire più alla YANI è stata la decisione del direttivo di investire tempo ed energie nella stesura delle norme UNI.

Lo yoga non si può ridurre ad un protocollo o ad un insieme di protocolli, non si può ridurre a delle procedure standardizzate, uniformate, ad un insieme di regole/pratiche che vanno bene per tutti in qualsiasi circostanza, o a delle “cose” misurabili, oggettivabili. Lo yoga non è fondato su una visione meccanicista, riduzionista, materialista come, viste le scelte fatte, sembra ritenere il gruppo di persone che gestisce attualmente la YANI.

Riferendosi agli Yogasutra, Gérard Blitz scriveva: “Quando la mente è in pace lo stato di Yoga si produce. Ecco qua la grande definizione, quella che orienta le nostre ricerche e le nostre azioni nello yoga.”

Gli Shivasutra affermano che “lo yoga è coscienza”, e che “gli stadi dello yoga sono meraviglia”.

La consapevolezza, la pace, il silenzio, la meraviglia, la gentilezza, la compassione non sono misurabili, non sono delle cose.

Inoltre l’insegnamento dello yoga è qualcosa di vivo e vitale, che nasce nella relazione unica e autentica tra un certo insegnate e un certo allievo all’interno di un determinato contesto: non è qualcosa di meccanico che può essere codificato in sterili procedure standardizzate.

Quando un monaco disse ad Achan Chah che il suo insegnamento era incoerente e contraddittorio, egli si mise a ridere e rispose: “Quando vedo una persona che, camminando su una strada, sta per cadere nel fosso alla sua sinistra, gli dico vai a destra, vai a destra; e se vedo che sta per cadere nel fosso a destra, allora gli dico vai a sinistra, vai a sinistra”.

Tirumalai Krishnamacharya, uno dei maestri più importanti del secolo scorso ha costantemente enfatizzato l’esigenza di personalizzare l’insegnamento, cioè che occorre insegnare ciò che è appropriato ad ogni individuo.

Sul piano pratico non c’è da meravigliarsi che il risultato immediato della definizione delle norme UNI è stato il proliferare di cosiddetti enti di certificazione che si sono proposti agli insegnati yoga con tecniche di marketing più o meno aggressive.

Io ho lavorato per più di 25 anni in grandi aziende come consulente informatico e ho constatato direttamente come le aziende “gestiscono” le certificazioni. Inoltre, qualche mese fa, ho parlato con una persona che ha lavorato per venti anni nel mondo delle certificazioni e mi ha confermato, in senso peggiorativo, quello che già sapevo: per essere benevoli possiamo affermare che i benefici delle norme UNI per le aziende e soprattutto per i consumatori sono tutti da dimostrare, mentre l’unico reale guadagno è per le aziende di certificazione e i vari consulenti del settore. 

L’amico mi ha raccontato che invece di chiamarle certificazioni, con un gioco di parole molto interessante, le definivano “CARTIFICAZIONI”. Mi ha raccontato che di quel periodo della sua vita lavorativa l’unica cosa che ricordava con piacere erano i pranzi luculliani che le aziende pagavano ai certificatori.

È sempre interessante riflettere, porsi delle domande, come ad esempio: Su che visione del mondo sono basate le norme UNI? Tale visione è compatibile con quella dello yoga? Le norme UNI ottengono veramente gli scopi per cui vengono proposte? Chi ci guadagna veramente? Chi certifica gli enti certificatori? Chi controlla il controllore?

Vogliamo veramente che il mondo dello yoga venga “CARTIFICATO” come tutto il resto della nostra società, e che quindi perda l’autenticità e l’efficacia che, in molti casi, tuttora conserva?

Nella nostra società si aggiungono in continuazione sempre nuovi livelli di burocrazia e di controllo, sempre più gusci vuoti, per nascondere i veri problemi che sono la visione nichilista del mondo espressa attraverso il neoliberismo e la ricerca del profitto a tutti i costi, la sete di potere, la corruzione endemica. Per me è certamente triste vedere che una mentalità simile viene riprodotta nel mondo dello yoga.

I pezzi di carta sono solo dei pezzi di carta: sono al più delle convenzioni sociali che alcune volte hanno una certa rilevanza, ma appunto come convenzioni sociali.

In ultima analisi, come ha detto Gerard Blitz: “Nell’insegnamento si trasmette ciò che si è. Non conta il sapere accumulato, ma la nostra condizione d’Essere.

Per un insegnante yoga l’unica certificazione veramente importante è quella della propria condizione d’essere, della propria consapevolezza, della propria esperienza. Quando scopriamo che siamo un po’ più svegli, presenti e, contemporaneamente, un po’ più quieti, tranquilli, quando ci accorgiamo che siamo un po’ più gentili, compassionevoli, gioiosi, quando riconosciamo che la nostra mente è un po’ più libera, spaziosa, quella è la certificazione che ha veramente valore. Le altre certificazioni sono solo pezzi di carta che mettiamo nel cassetto con altre scartoffie, o che appendiamo ai muri a prendere polvere, niente di più e niente di meno.

Una caratteristica molto negativa della nostra società è quella della mercificazione di ogni cosa: quando lo yoga viene ridotto ad un insieme di tecniche, di procedure, di protocolli da applicare in modo meccanico per ottenere certi risultati, allora può essere venduto più facilmente come merce sul mercato del cosiddetto benessere.

Tutte queste iniziative che tendono a inquadrare lo yoga come un lavoro, una professione, sostanzialmente un business come un altro; e tutte queste norme, regole, leggi che, in teoria, dovrebbero servire a garantire la sua qualità, in realtà non fanno altro che condurre lo yoga alla sua totale mercificazione.

Personalmente non sono assolutamente d’accordo e non mi interessa far parte di una associazione che, con le sue azioni concrete, di fatto considera lo yoga come un qualsiasi altro lavoro, invece di proporre lo yoga per ciò che è autenticamente, cioè come modo di vivere, come filosofia e pratica di vita, come ricerca spirituale, come via verso la liberazione.

È importante chiedersi: l’insegnamento dello yoga è un lavoro, una professione, un business come un altro dove è appropriato fare più soldi e più carriera possibile oppure è una attività molto diversa, con caratteristiche del tutto peculiari? Il fatto che io riceva un compenso per il tempo che dedico alle lezioni e alla loro preparazione è legato al fatto che vivo in un certo contesto sociale e culturale, oppure è qualcosa che fa parte dello yoga, della sua tradizione e del suo modo di vedere?

Poiché la pratica dello yoga permette di liberarci dalla visione mondana, dualistica di guadagno perdita, successo insuccesso, o, per lo meno, di essere meno condizionati dall’ossessione del guadagno e del successo, allora penso che vada detto chiaramente che l’insegnamento dello yoga è una attività del tutto particolare, che non è compatibile con la sete di ricchezza, successo, carriera e potere che viene associata al concetto di lavoro o professione.

Ovviamente, vivendo in questa società, siamo tutti condizionati da questi fenomeni di mercificazione, da una visione meccanicista, riduzionista, materialista: è importante essere consapevoli di tali condizionamenti e cercare di minimizzarli, e ove possibile, liberarsene; cosa diversa è essere totalmente inconsapevoli e/o essere attivamente partecipi e spingere in questa direzione, magari per un profitto personale, o per ragioni egoiche.

Vorrei proporre, come strumento di riflessione, un’analogia tra lo yoga e la filosofia antica, che forse ci permette di comprendere meglio in che direzione si sta muovendo lo yoga attualmente.

Pierre Hadot, uno dei principali filosofi contemporanei, ha efficacemente spiegato come la filosofia antica fosse un modo di vivere, una scelta di vita che coinvolgeva la totalità dell’essere, mentre la filosofia moderna, nella stragrande maggioranza dei casi, ha perso questa caratteristica. Nel suo libro “Che cosa è la filosofia antica” ha scritto:

“Hegel ricorda che la filosofia non è più, come per i Greci, esercitata come arte privata, ma che essa ha un’esistenza ufficiale che concerne dunque il pubblico, che essa è principalmente o esclusivamente al servizio dello Stato. Bisogna riconoscere che vi è una contrapposizione radicale tra la scuola filosofica antica, che si rivolgeva a ogni individuo per trasformarlo nella globalità della sua personalità, e l’università, che ha per missione quella di rilasciare diplomi corrispondenti a un certo livello di sapere oggettivabile.”

E poco oltre scrive:

“L’istituzione universitaria porta a fare del professore di filosofia un funzionario il cui mestiere consiste, in larga parte, nel formare altri funzionari; non si tratta più, come nell’antichità, di formare al mestiere di uomo, ma di formare al mestiere di chierico, o di professore, vale a dire di specialista, di teorico, detentore di un certo sapere, più o meno esoterico. Ma questo sapere non mette più in gioco l’intera vita, come voleva la filosofia antica.”

Se riflettiamo possiamo vedere chiaramente come ci sia un forte parallelismo tra quello che è successo alla filosofia antica e quanto sta succedendo allo yoga attualmente. Come la filosofia, dopo il periodo ellenistico, si è progressivamente impoverita e degradata, perdendo la sua caratteristica principale di modo di vivere, di esercizio spirituale, per usare il termine usato da Pierre Hadot, allo stesso modo, nel nostro contesto culturale, lo yoga viene impoverito e banalizzato considerandolo come un mero esercizio fisico, una tecnica di rilassamento, un modo per ritrovare un non ben precisato benessere.

Le varie tradizioni dello yoga hanno sempre considerato l’essere umano nella sua totalità, e, pur nelle loro diversità, si sono proposte come cammini di conoscenza globale, come vie verso la liberazione, una liberazione che concerne anche (o forse soprattutto) tutte le separazioni, frammentazioni del percepire conoscere.

Per essere chiari il dualismo cartesiano, il pensiero dicotomico, separativo in cui tutti siamo immersi è l’opposto speculare della visione dello yoga.

Vogliamo veramente che l’insegnante di yoga diventi un lavoratore, un professionista del benessere, in qualche modo un funzionario dello stato che applica meccanicamente dei protocolli definiti da altri? oppure vogliamo mantenere la nostra libertà di ricercatori spirituali che condividono con autenticità e gentilezza il proprio camino con altri?

Vimala Thakar, una delle più lucide e profonde ricercatrici spirituali del secolo scorso a scritto:

Se non siamo liberi all’inizio di un’indagine non c’è possibilità di respirare liberamente quando l’avremo terminata, perché la comprensione al termine della ricerca non è che la fioritura della ricerca stessa. La comprensione non è qualcosa di separato e non ha un’entità separata dalla ricerca stessa. Se non c’è la libertà, la fragranza, il sapore, la bellezza della libertà, una via e un approccio non autoritari, allora naturalmente, al termine della ricerca, non può esserci lo sbocciare, il fiorire della libertà.

Vorrei concludere raccontando un episodio che mi è capitato ultimamente interagendo con la struttura burocratica della YANI: potrebbe sembrare una cosa quasi banale e insignificante, ma è proprio dalle piccole cose, dai dettagli che si deducono gli aspetti più profondi e importanti. A suo tempo mi era stato richiesto di scrivere un breve articolo per la rivista “Percorsi Yoga” che aveva come argomento “Yoga e religione”: il titolo originale del mio pezzo era “Yoga come religione oppure yoga come liberazione?”. Quando ho ricevuto la rivista, con grande sorpresa ho scoperto che il titolo era stato cambiato in “Yoga come liberazione” senza chiedere il mio parere o informarmi in nessun modo.

Mentre il titolo originale era volutamente interrogativo, e voleva promuovere una autonoma riflessione nel lettore, il nuovo titolo ha un che di dogmatico e autoritario che impedisce la riflessione: cioè il titolo, e, quindi, in qualche modo anche il breve articolo, è stato completamente stravolto senza informarmi e chiedermi nulla. Ho trovato questo comportamento eticamente discutibile, arrogante e del tutto irrispettoso, sia verso il mio contributo, e sia verso il potenziale lettore dell’articolo.

Questo episodio mi ha fatto definitivamente comprendere che non è possibile una reale collaborazione con la YANI. Purtroppo tutte le strutture burocratiche, per loro natura, devono in qualche modo promuovere la certezza, il dogmatismo in ogni sua forma, e hanno paura della libertà di pensiero, della riflessione autonoma, e, spiace molto constatarlo, la YANI non fa eccezione.

Parlando informalmente con alcuni soci della YANI mi è capitato spesso di percepire profonda insoddisfazione e malessere: purtroppo tutto ciò rimane nascosto e non viene espresso in modo aperto e palese.

Con la condivisione di queste riflessioni ho voluto manifestare pubblicamente il mio disaccordo: le mie parole sono state molto dirette, e, forse, alcune volte un po’ “crude” e un po’ provocatorie, ma sempre autentiche, oneste e trasparenti. E certamente la mia intenzione è positiva: è quella di favorire un dibattito, una riflessione sullo yoga, sia all’interno e sia all’esterno della YANI, in tutti coloro che hanno veramente a cuore lo yoga.

I latini dicevano: “Obsequium amicos, veritas odium parit” cioè "l'adulazione procaccia amici, la verità attira l'odio". Mi auguro che questo non sia vero, almeno tra i praticanti di yoga, e che si possa continuare a essere in amicizia e in concordia, anche con chi legittimamente dissente profondamente da quanto ho scritto, e con chi fa parte della YANI: anzi io auspico che si possa aprire un dialogo costruttivo e franco.

Concludo citando nuovamente il discorso di scioglimento dell'Ordine della Stella di Krishnamurti:

“Se parlo con crudezza, vi prego di non fraintendermi: non è per mancanza di compassione. Se avete bisogno di un chirurgo, non è un atto di gentilezza operarvi anche se ciò vi provoca dolore? Se quindi vi parlo con ruvidezza non è per mancanza di amore per voi, ma l’esatto contrario. Come ho già detto, ho un unico scopo: rendere l’uomo libero, spingerlo verso la libertà, aiutarlo a staccarsi da tutti i limiti, perché soltanto ciò può dare eterna felicità, soltanto ciò può dare la realizzazione incondizionata del sé.”