Il cammino è già la meta

Quando hai capito che la destinazione è la strada e che tu sei sempre sulla strada,

non per giungere a destinazione, ma per godere della sua bellezza e della sua saggezza,

la vita cessa di essere un dovere e diventa semplice e naturale, una beatitudine in sé e per sé.

Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello.

Se può essere relativamente facile illustrare un cammino di ricerca interiore attraverso la descrizione dei metodi e delle pratiche utilizzate, è ovviamente più difficile e delicato parlare del frutto, di ciò che otteniamo seguendo una via interiore.

Innanzitutto c’è un qualcosa di paradossale che ti blocca: che senso ha usare delle parole per descrivere un modo di essere, un atteggiamento, un modo di percepire e vivere la vita?

Poi c’è un pudore, un ritegno che deriva dal considerare se stessi “poco ferrati in materia”.

Però qualcosa bisogna pur dire sul frutto della pratica: come occidentali non ci accontentiamo di seguire una via senza sapere quale sarà la “ricompensa”.

Riflettendo in modo libero e forse un po’ grossolano sul significato delle espressioni tradizionali che indicano il frutto della pratica, si potrebbe dire che, anche se ogni tradizione ha sviluppato una propria terminologia e ci sono molti modi diversi di indicare questa esperienza, essi possono essere raggruppati in tre categorie generali, cioè i termini che indicano un cambiamento di stato, quelli che fanno riferimento a un processo di purificazione e quelli che indicano direttamente il nostro stato naturale.

Nella prima categoria, quella che indica un cambiamento di stato, troviamo termini come illuminazione, risveglio (Buddha significa letteralmente “Risvegliato”), o anche realizzazione: in questo caso si considera la presenza di uno stato abituale del sistema mente corpo che è offuscato, buio, dove non vediamo percepiamo chiaramente, uno stato abituale dove siamo un po’ come immersi nel sonno, oppure uno stato dove abbiamo delle potenzialità, dei semi che occorre sviluppare. Attraverso la pratica avviene appunto un cambiamento di stato, cioè qualcosa di più o meno improvviso che ci porta in una condizione d’essere migliore, che viene indicata dalla luce al posto delle tenebre, dall’essere svegli al posto di addormentati, o dalla realizzazione delle nostre potenzialità.

Alla seconda categoria appartengono quei termini che fanno riferimento allo stadio finale di un processo di purificazione quali nirvana, nirodha, moksha, kaivalya che possiamo tradurre rispettivamente come raffreddamento o spegnimento, cessazione, liberazione, isolamento liberatorio. Qui l’enfasi è posta più sul processo di purificazione che non sul cambiamento di stato; si fa riferimento cioè al fatto che la nostra vera natura è velata, nascosta da impurità, da inquinanti e che la realizzazione è più una “decontaminazione”, un lasciare andare, una liberazione. Il frutto, dunque, non è lo stadio finale di un processo di acquisizione, di accrescimento, ma al contrario è una semplificazione catartica che fa riemergere la nostra vera natura.

Nel linguaggio quotidiano nirvana (nibbana) si riferisce al raffreddarsi di un oggetto caldo. (…)

Nel linguaggio del Dharma nirvana si riferisce a quella quiete che deriva dall’eliminare le impurità della mente. In ogni momento in cui vi è libertà dalle impurità della mente, è in quel momento che c’è quiete, un nirvana momentaneo.

Buddhadasa Bhikku – Un diverso genere di nascita

Infine troviamo quei termini che fanno riferimento diretto alla nostra vera natura, al nostro stato naturale come Dzogchen, Mahamudra, Tao, traducibili rispettivamente con perfezione totale, grande sigillo, armonia; in questo caso l’enfasi è posta sull’aspetto conoscitivo, cioè si tratta di riconoscere e attualizzare, si tratta di comprendere e rendere effettiva nella nostra vita questa comprensione. È, dunque, una forma di conoscenza non concettuale, non razionale, pre-verbale, una qualità di presenza conoscenza che può integrarsi in ogni aspetto della vita.

Prima dovete capire e assaporare quello stato; poi dovete realizzarlo realmente. Seguendo questa via, prima riconoscete la natura e poi vi allenate sviluppando la forza del riconoscimento, e, alla fine, ottenete la stabilità. Questo è tutto. Riconoscete il momento in cui siete svegli, in cui non siete coinvolti negli oggetti percepiti, in cui la mente che percepisce è non impegnata, senza occupazione, libera. Non siete contaminati da nessuna emozione. Quando la sveglia presenza originaria è completamente presente, pienamente realizzata, è il significato effettivo della parola Buddha, il puro e perfetto stato risvegliato. La via del risveglio consiste nel rendere questo stato abituale e stabile.

Tulku Urgyen Rinpoche – La natura che tutto pervade

Come occidentale dovrei forse trattare anche del temine salvezza utilizzato nella tradizione cristiana. Sebbene sia stato educato come cattolico (ho fatto il chierichetto fino a 14 anni) e sebbene certamente conosca questa parola, allo stesso tempo mi sembra di poter dire che non la comprendo veramente, che non c’è sintonia. Da che cosa dovremmo salvarci? Chi si deve salvare? Dico questo nel massimo rispetto per chi comprende, utilizza e si sente legato a questo termine, esprimo solo una mia personale difficoltà.

Certamente può essere molto facile sentirsi in sintonia con le seguenti parole di Raimon Panikkar:

La felicità è la salvezza, e la salvezza è precisamente questa gioia perenne e totale, questa comunione e comunicazione con Dio, che non è tanto sorgente di gioia ma gioia perfetta.

Se la concezione di Panikkar è facilmente condivisibile, essa mi sembra anche molto lontana dal modo di vedere e presentare la salvezza che correntemente ci viene proposto, e anzi in qualche modo ribalta completamente la visione “ortodossa”.

Queste riflessioni, sebbene da una parte abbiano una certa validità, dall’altra si basano però su un modo di usare il linguaggio che spesso e volentieri, soprattutto nel campo della ricerca interiore, si rivela anche una trappola.

Nella vita quotidiana ciò che abitualmente facciamo è, in un primo tempo, fissare, definire un obiettivo che è separato da noi, da ciò che siamo in un dato momento, poi ci sforziamo di raggiungerlo: cioè con lo sforzo e con la volontà entriamo in azione per raggiungere qualcosa che ora non abbiamo, per creare un qualcosa che ora non c’è. Alla fine, se ci siamo sforzati abbastanza, raggiungiamo il nostro obiettivo, otteniamo la nostra ricompensa.

Possiamo chiederci se nella pratica spirituale sia veramente così. Questo modo di vedere rappresenta correttamente il percorso di un cammino interiore?

Sembrerebbe quindi che in un cammino spirituale ci sia un luogo di partenza dove c’è (solo) sofferenza, ignoranza, e che attraverso un cammino lineare unidirezionale, praticando in modo corretto, si arrivi alla fine in un posto finale, dove c’è (solo) benessere, che chiamiamo Nirvana o Paradiso; credo che proprio questo modo di vedere sia la gabbia da cui ci dobbiamo liberare, penso che sia il problema, non la soluzione.

Libertà significa comprendere che non c’è nessun posto di partenza (totalmente) negativo in cui siamo bloccati, intrappolati, e non c’è nessun posto finale (totalmente) positivo da raggiungere: ogni momento è già completamente libero.

Ecco come si esprime Thich Nhat Hanh:

Nulla nasce, nulla muore.

Nulla da trattenere, nulla da lasciare andare.

Il samsara è il nirvana.

Non c’è nulla da raggiungere.

Questi versi si riferiscono alla dimensione assoluta: il frutto della pratica, il nirvana, l’andare al di là della nascita e della morte. Sappiamo però che la dimensione storica non è separata dalla dimensione assoluta. Diciamo di “raggiungere” la dimensione assoluta, ma in realtà non raggiungiamo proprio niente. L’onda non ha alcun bisogno di raggiungere lo stato di acqua: l’onda è acqua. Noi viviamo nella dimensione storica, nel mondo dell’esistenza e dell’inesistenza, della continuazione e della cessazione, del venire e dell’andare, e allo stesso tempo siamo in contatto con il nirvana. Il nirvana è la nostra vera natura. Proprio come un’onda è sempre stata acqua, noi siamo sempre stati nel nirvana.

Questo modo di vedere che separa la via dal risultato, che pospone la meta sempre in un non meglio identificato futuro, che ci dice che se ora “facciamo cose buone e giuste”, allora poi, in futuro, andremo in Paradiso, avremo la felicità eterna, rinasceremo in una condizione migliore, realizzeremo il Nirvana, ecc., proprio questo modo di vedere è sofferenza. 

Il paradiso e l’inferno, il samsara e il nirvana sono entrambi presenti, proprio qui, proprio ora; samsara e nirvana, sofferenza e benessere non sono una “cosa” separata da noi, da cui dobbiamo fuggire o da raggiungere, ma sono entrambi qui e ora, nel nostro modo di essere, nella modalità di fare esperienza e di vivere, nella qualità del percepire conoscere.

Questo non significa però che non ci sia un percorso di crescita interiore, che non ci sia un cambiamento. Il cambiamento accade in modo organico e naturale una volta che ci si è dati una direzione, un orientamento salutare e autentico, e che ci si mantenga “in cammino”. Allora (forse) possiamo scoprire che la pratica stessa è già la ricompensa, che il cammino è già la meta.

Partendo dalla mia personale esperienza, dopo oltre vent’anni di pratica, certamente posso dire che qualcosa è accaduto, anche se non potrei spiegare veramente come e quando. Il modo più appropriato di descrivere questo processo è usare la metafora attribuita a Suzuki Roshi nella quale egli afferma che la ricerca interiore è un po’ come camminare in una nebbia fitta: dopo un po’ di tempo ci si accorge di “essere completamente bagnati”.

Questo “essere completamente bagnati” per me significa prima di tutto che, durante gli anni, l’interesse e la voglia di praticare sono cresciuti, e che mi piace sempre di più ritrovarmi in contesti di pratica.

Per esempio partecipo con sempre maggiore gusto a ritiri e a insegnamenti insieme ad altre persone che condividono con me un percorso e un sentire comune.

Nel contesto della mia vita quotidiana, alla sera, magari dopo una giornata di lavoro piena di mille impegni in cui spesso mi sono perso, mi piace finalmente esserci. Mi piace sedere sul mio cuscino e deliberatamente osservare senza interferire; con tocco leggero, mi apro all’esperienza del momento e con fiducia e pazienza lascio che piano piano la mente discorsiva si acquieti, così da poter riconoscere e dimorare in una qualità di mente semplice, chiara e spaziosa.

Cerco sempre di dare continuità alla pratica in azione, alla pratica nella vita di tutti i giorni: esserci mentre sono in piedi in coda con il carrello della spesa, rallentare deliberatamente il ritmo del camminare per assaporarne l’esperienza, in un lampo fermarsi e diventare pienamente consapevoli, il continuo ritornare al corpo e al respiro nelle semplici azioni quotidiane.

Da alcuni anni inoltre mi dedico all’insegnamento dello Yoga, che mi permette di continuare ad approfondire la mia ricerca interiore insieme ad altri compagni di viaggio; attraverso i miei allievi riscopro ogni volta il valore e la validità degli insegnamenti che ho ricevuto e che cerco di trasmettere con autenticità e calore.

Un altro modo di guardare al frutto della pratica è quello che riguarda gli stati mentali “non ordinari”, il raggiungere certe capacità, qualità mentali, o di sperimentare i cosiddetti stati “mistici”.

Alcuni autori raccontano di esperienze “mistiche” precoci, fatte in giovane età, che hanno indirizzato il loro cammino: nel mio caso non è così. Ho avuto un’infanzia e una adolescenza del tutto ordinarie, in un paese di provincia dove il contesto culturale e religioso hanno di fatto favorito un mio allontanamento dalla dimensione interiore e un allontanamento anche da un contatto vero e amichevole con me stesso.

A diciannove anni ho però vissuto due esperienze particolari che sono legate a due incidenti stradali, uno in moto e l’altro in auto, avvenuti a circa sei mesi l’uno dall’altro: in entrambi i casi ho sperimentato uno stato mentale molto particolare in cui le percezioni dei cinque sensi e della mente erano molto acute e chiare. C’era una grande presenza mentale e il tempo sembrava rallentato; a dispetto della situazione che poteva portarmi alla morte o a un’invalidità grave, era presente una grande calma e una sorta di sensazione di “distacco”, pur essendo completamente immerso in ciò che vivevo.

Per circa 25 anni ho completamente dimenticato i due episodi: non essendo a quel tempo minimamente collegato a una qualche forma di pratica interiore, non ho saputo né comprendere né integrare quelle esperienze, sebbene molto potenti e chiare.

Ho ricordato quegli episodi solo molti anni dopo, durante un lungo ritiro di meditazione buddhista di consapevolezza, dove queste qualità della mente sorgevano, di tanto in tanto, in modo spontaneo e senza sforzo.

Durante quel ritiro, oltre alla grande chiarezza e presenza mentale, era presente anche una gioia, un agio, un appagamento interiore che è difficile descrivere a parole.

Quando a un certo momento il motore del frigorifero smette di girare… Ah!, c’è una sensazione di sollievo, finalmente il rumore fastidioso non c’è più, anche se forse prima che smettesse non eravamo pienamente consapevoli di questo fastidio. Ecco, allo stesso modo, improvvisamente quel senso di separatezza esistenziale finisce, quella sottile tensione fastidio che è sempre presente nel modo abituale di fare esperienza della vita improvvisamente cessa e rimane un Ah!: ci sono stupore, sorpresa, gioia, chiarezza, una grande pace, una naturalezza e semplicità inaspettate.

Ho raccontato questo per dire che certe potenzialità, certe qualità sono del tutto naturali e sempre presenti in ognuno di noi. Possono manifestarsi inaspettatamente oppure in relazione alla nostra ricerca interiore: la pratica ci permette di riconoscerle, coltivarle e integrarle nella nostra vita.

Sinceramente non saprei dire se veramente sia possibile stabilizzare e rendere abituali queste qualità, le tradizioni sembrano però concordi in questo.

Ajahn Chah aveva un’immagine per questo. Egli disse: “Questi momenti di consapevolezza e comprensione sono come gocce d’acqua che escono da un rubinetto. All’inizio è goccia – goccia – goccia, con dei grandi spazi tra le gocce”. Se durante questi spazi siamo distratti, se siamo catturati dal nostro pensare, catturati dai contenuti della mente e dalle sensazioni che stiamo sperimentando, possiamo ritenere che i nostri momenti di consapevolezza siano vani e liquidarli come casuali. Ma Ajahn Chah disse: “Piano piano, con uno sforzo uniforme, questi momenti diventano goccia, goccia, goccia, quindi gocciagocciagoccia, e poi diventano un getto d’acqua”. Con uno sforzo costante, si entra in un flusso continuo di consapevolezza. I momenti in sé sono gli stessi, ma sono ininterrotti. 

Ajahn Munindo - Unexpected freedom

Nel mio caso posso affermare che anche durante i ritiri intensivi queste qualità vanno e vengono un po’ a loro piacimento, e che nella mia vita ordinaria sono molto spesso catturato dalla mente discorsiva e giudicante, mi perdo spesso nel proliferare dei pensieri e delle emozioni; tuttavia riconosco di avere sviluppato nel tempo quella fiducia, quella pazienza e quella familiarità con me stesso che mi permettono di tornare al centro, di sintonizzarmi di nuovo, e di nuovo ancora.

In generale, si può pensare che il frutto della pratica sia qualcosa che si raggiunge una volta per tutte, uno stato di mente corpo a cui si accede e che non cambia più: è un modo di vedere del tutto valido e in linea con ciò che descrivono molte tradizioni. A me pare però che, percorrendo un cammino interiore, questo modo di vedere sia più un ostacolo che un aiuto: forse la cosa più importante, al di là dello stato di mente corpo che continuamente cambia, è mantenere vivo un atteggiamento di ricerca, un atteggiamento contemplativo, è continuamente ricollegarci e di nuovo riscoprire un’autenticità, una viva sensibilità, un’attenzione aperta e rilassata, un fresco interesse.

La storia racconta di alcuni amici che una notte incontrano Nasruddin che cammina carponi sotto un fanale.

“Cosa stai cercando?”, gli chiedono.

“Ho perduto la chiave di casa”, risponde.

Tutti si chinano per aiutarlo. Dopo una ricerca infruttuosa, uno di loro pensa di chiedere dove ha perduto la chiave.

“A casa”, risponde Nasruddin.

“Ma allora, perché la stai cercando sotto questo fanale?”, gli chiedono.

“Perché qui c’è più luce!”, replica Nasruddin.

(…)

“Conosci la storia di Nasruddin e della chiave?”, chiede Shainberg al suo maestro.

“Nasruddin?”, risponde il roshi. “Chi è Nasruddin?”.

Shainberg gli narra la storia, ma il maestro sembra non prestare ascolto; tuttavia qualche tempo dopo il roshi la tira di nuovo in ballo.

“Allora, Larry san, che cosa sta dicendo Nasruddin?”, chiede il maestro zen al suo discepolo.

“Sono io che te l’ho chiesto, roshi”.

“Facile”, dice il maestro. “Cercare è la chiave”.

Mark Epstein – La continuità d’essere

Ovviamente la storia molto famosa di Nasruddin che cerca la chiave di casa può essere interpretata in molti modi diversi. Per esempio potrebbe indicare che per ritornare a prendere dimora nella nostra vera casa dobbiamo passare attraverso ciò che non conosciamo, ciò che non ci piace, attraverso qualcosa che ci fa paura e che cerchiamo di evitare (cercare proprio lì dove c’è “buio”, il buio del non conosciuto, di ciò che costantemente rifuggiamo, evitiamo), oppure anche che per tornare a casa basta semplicemente tornare a casa: la chiave di casa è proprio in casa e quindi è del tutto inutile cercare all’esterno, per quanto l’esterno sia confortevole e conosciuto e si possano trovare persone che ci aiutano.

L’interpretazione del maestro zen mi sembra molto interessante perché ci fa capire che non è tanto importante il trovare la chiave; siamo tutti presi nella ricerca della felicità, dell’unica vera verità, nella ricerca della chiave del Nirvana, del Paradiso, e non consideriamo che la ricerca stessa, la continua riflessione, la fiducia e l’interesse sempre rinnovati, l’atteggiamento contemplativo che coltiviamo in ogni aspetto della vita, la continua presenza riconoscimento sono contemporaneamente sia la via che il frutto.

Invece di fissarci su una “cosa”, su uno “stato” da raggiungere, se spostiamo l’attenzione sul processo, possiamo rilassarci nell’apprezzamento dello svolgersi della nostra vita che è imbevuta dalla nostra ricerca.

Il frutto non concerne quindi l’acquisire una volta e per sempre un sapere tecnico, l’imparare a usare una “scatola di trucchi”, non è una forma di conoscenza statica, separata e separativa, ma è piuttosto un saper camminare, un fluire armonico, un equilibrio dinamico da riscoprire di momento in momento, un continuo meravigliarsi nei confronti del mistero e della bellezza della vita.