Yoga Advaita Sahaja Tantra: il dharma hindù

Riassumendo alcune caratteristiche del dharma hindù potremmo forse citare, tra le altre, le seguenti.

UNA SPIRITUALITÀ NON CONCETTUALE. Si avvale per forza di concetti, ma difficilmente se ne appaga e li considera sempre come una traduzione molto approssimata e poco fedele. …

Questa sua prima caratteristica è condizionata dalla seconda: la sua DIMENSIONE ESPERIENZIALE che a volte la porta fino a voler essere SPERIMENTALE. Ciò che conta non è il concetto, con tutto quanto comporta, ma l’esperienza personale, ovverossia ciò che è vissuto dalla persona concreta e assimilato nell’esperienza personale e non trasferibile. …

Un terzo aspetto, in fondo esplicitazione sempre della stessa caratteristica, sarebbe la pretesa di INTEGRALITÀ. La spiritualità hindu pretende di cogliere l’uomo intero, la sua testa, il suo cuore, la sua azione, come in fondo avviene per qualunque spiritualità degna di questo nome. …

Infine salta all’occhio anche il suo aspetto ASSOLUTO, per non dire a volte assolutista. Non accetta compromessi ed è conseguente fino in fondo. Non si arrende davanti a nessun ostacolo né si accontenta di soluzioni che non siano totali né assolutamente definitive.

Raimon Panikkar – Il Dharma dell’induismo

Utilizzando la citazione di Raimon Panikkar come mappa, di seguito vorrei proporre una riflessione sulle caratteristiche generali della spiritualità indiana.

Lo Yoga e il Buddhismo, o meglio, le varie tradizioni e correnti dello Yoga e del Buddhismo, prima di diffondersi sia a oriente come a occidente, si sono sviluppate per centinaia di anni in India: hanno quindi condiviso oltre che lo stesso luogo geografico, anche la stessa matrice culturale, sociale e spirituale; e certamente si sono fecondate reciprocamente, sia tra di loro e sia con le altre correnti della spiritualità indiana.

Possiamo chiederci se è possibile scoprire e delineare delle caratteristiche generali della spiritualità indiana, visto la sua complessità, vastità e diversità; inoltre possiamo chiederci se c’è un aspetto particolare intorno al quale l’India ha sviluppato il suo discorso e la sua pratica spirituale.

Queste domande non sono poste in modo puramente accademico o filosofico: se comprendiamo più chiaramente la spiritualità indiana, le sue peculiarità, questo ci  permette di utilizzare i suoi metodi in modo più efficace al fine di comprendere più in profondità noi stessi, il funzionamento del sistema mente corpo, e, in definitiva, per ritrovare quella serenità e pace interiore che sembrano sempre sfuggirci.

Per rispondere a queste domande mi farò aiutare da Raimon Panikkar, uno dei più grandi filosofi e maestri di vita contemporanei. Egli ripeteva spesso di essere 100% cattolico, 100% indù e 100% buddhista: voleva dire che era un profondo conoscitore e praticante di tutte e tre le religioni, e nello stesso tempo era libero da tutte le definizioni, categorie, separazioni a cui spesso noi ci attacchiamo e con le quali ci identifichiamo. Ho avuto la fortuna di incontrarlo personalmente durante alcuni seminari: ciò che trasmetteva a livello concettuale era certamente interessante e molto profondo, ma quello che mi ha colpito di più del suo insegnamento era la sensazione di grande libertà interiore e leggerezza che emanava, che faceva risuonare in me.

E proprio la liberazione, in sanscrito moksha, è il frutto della pratica: una presenza consapevole stabile e chiara, unita ad un senso di libertà interiore, di spaziosità, di leggerezza, di equilibrio mentale, di gioia, di naturalezza, di …

Poiché se ne può fare esperienza, allora possiamo usare diverse parole per descrivere la liberazione, e, allo stesso tempo, essa è non concettuale, ineffabile, è oltre e prima del linguaggio.

Per l’occidentale questo è un paradosso che disturba, che va superato “razionalmente”, ma per la spiritualità indiana, questo apparente paradosso tra esperienza diretta e ineffabilità non crea alcun problema; la spiritualità indiana, in generale, accoglie, potremmo dire prende dimora nel paradosso, perché il paradosso è alla base della vita.

E quello che ci interessa veramente e primariamente è la Vita, è il vivere, è ritrovare una naturalezza e spontaneità di vita, è fluire in accordo con la vita.

Panikkar identifica chiaramente il problema quando dice:

L’albero della Conoscenza esercita sempre una grande tentazione, spingendo a disinteressarsi dell’albero più importante, quello della Vita.

A cui fa eco Chogyal Namkhai Norbu:

Molte persone sfortunate condizionate dai concetti e dalle analisi fanno della conoscenza un oggetto della mente e restano lontane dal senso profondo.

Chogyal Namkhai Norbu – Introduzione diretta allo stato dell’Atiyoga

Nella citazione a inizio capitolo, Panikkar identifica le prime due caratteristiche della spiritualità indiana con la dimensione non concettuale e quella esperienziale: esse sono indissolubilmente intrecciate e rappresentano i due pilastri delle varie tradizioni indiane.

Per descrivere queste due dimensioni, da una parte si potrebbe cadere nel paradosso di una lunga disquisizione filosofica dove ci si perde nell’analisi e nei concetti; oppure, all’opposto, e in modo forse più appropriato, si potrebbe lasciare una pagina bianca, si potrebbe entrare nel “nobile silenzio”.

Sceglierò una via di mezzo dicendo semplicemente che il silenzio e la meraviglia sono il cuore della dimensione non concettuale: non il silenzio forzato e un po’ brutale che si può ottenere da certe pratiche concentrative, ma il silenzio vivo e vitale, il silenzio che nutre e ristora, il silenzio che non è legato allo sforzo e alla volontà, ma che è il nostro stato naturale, ciò che già siamo autenticamente.

Molto efficacemente Larry Rosemberg, nel libro Respiro per respiro, descrive il nostro stato naturale di silenzio nel modo seguente:

Il silenzio è estremamente timido. Appare quando vuole e va soltanto da coloro che lo amano per se stesso. Non risponde al calcolo, all'attaccamento, o a richieste; non risponderà se avete progetti su di esso o se volete farci qualcosa. Non risponde neanche ai comandi. Non potete comandare il silenzio più di quanto non possiate comandare a qualcuno di amarvi. Ci sono pratiche di concentrazione che raggiungono il silenzio, ma quel silenzio è relativamente grezzo, forzato, provvisorio e fragile, molto, molto soggetto a condizioni. Il silenzio di cui parlo è assai più profondo. Ci aspetta. Non può essere afferrato. Non lo creiamo; troviamo la nostra strada per entrarci. Ma dobbiamo accostarci con dolcezza, umiltà e innocenza. 

Si può scoprire e prendere dimora in questo silenzio attraverso uno sguardo gentile e innocente, uno sguardo che “apprezza silenziosamente” invece di “giudicare rumorosamente”; un continuo meravigliarsi dell’esperienza presente, di ciò che si manifesta di momento in momento nello spazio della consapevolezza.

La meraviglia è una dimensione squisitamente non concettuale: quando è presente allora siamo vividamente svegli, siamo veramente nell’adesso, la mente è chiara e sgombra di pensieri, le percezioni sensoriali sono più intense e sono “colorate” dal benessere e dal piacere. 

Non è un caso che la meraviglia, la quale tutti sperimentiamo almeno qualche volta, sia considerata alla base della filosofia antica e di molte tradizioni contemplative orientali. Solo alcune brevi citazioni per enfatizzare, se ce ne fosse bisogno, l’importanza dello stupore, di questo apprezzare meravigliato:

Per quanto riguarda la filosofia antica possiamo andare proprio ai suoi inizi citando sia Platone che Aristotele:

È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo.

Platone, Teeteto 155 d.

Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia.

Aristotele, Metafisica

Due brevi citazioni appartenenti alle tradizioni orientali:

Gli stadi dello Yoga sono meraviglia. (Shivasutra I.12)

La meraviglia è l’alba della saggezza.

Stupirsi costantemente è un sadhana (una pratica).

Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello

In occidente forse i poeti e, in generale, gli artisti, sono quelli che più sono rimasti in contatto col silenzio e con la meraviglia. Nella seguente poesia Fernando Pessoa coniuga gli aspetti del silenzio, della meraviglia e dell’amore in modo veramente sublime:

Il mio sguardo è nitido come un girasole

Ho l'abitudine di camminare per le strade 

guardando a destra e a sinistra 

e talvolta guardando dietro di me... 

E ciò che vedo a ogni momento 

è ciò che non avevo mai visto prima, 

e so accorgermene molto bene. 

So avere lo stupore essenziale 

che avrebbe un bambino se, nel nascere, 

si accorgesse che è nato davvero... 

Mi sento nascere a ogni momento 

per l'eterna novità del Mondo... 

Credo al mondo come a una margherita, 

perché lo vedo. Ma non penso ad esso, 

perché pensare è non capire... 

Il Mondo non si è fatto perché noi pensiamo a lui, 

(pensare è un'infermità degli occhi) 

ma per guardarlo ed essere in armonia con esso... 

Io non ho filosofia: ho sensi. 

Se parlo della Natura, non è perché sappia ciò che è, 

ma perché l'amo, e l'amo per questo 

perché chi ama non sa mai quello che ama, 

né sa perché ama, né cosa sia amare... 

Amare è l'eterna innocenza, 

e l'unica innocenza è non pensare...

Quindi si può dire che una “porta” del non concettuale è la meraviglia, e allo stesso tempo possiamo dire che la presenza mentale, la consapevolezza è anch’essa una via di accesso, e in questo non c’è nessuna contraddizione: in primo luogo ci sono molte “porte” che conducono al silenzio contemplativo. In secondo luogo quando siamo veramente presenti, quando siamo totalmente nell’adesso, allora ciò che viviamo non è un’attenzione fredda, sterile, “morta”, ma una “sensibilità” viva e vitale che è sempre accompagnata a qualche livello da un certo grado di stupore, di meraviglia; è sempre associata ad un certo grado di agio, piacere o beatitudine, ad un certo grado di chiarezza o intensità dell’esperienza, ad un certo grado di silenzio e quiete mentale. Tutti questi “ingredienti” possono variare nella loro intensità, ma, in generale, sono sempre presenti: a seconda della nostra natura, inclinazione, e a seconda del cammino spirituale scelto, possiamo essere più o meno consapevoli dell’esistenza di questi “ingredienti”.

La via della presenza consapevole è, per così dire, più universale di quella della meraviglia; è utilizzata con diversa enfasi un po’ in tutte le tradizioni spirituali. Certamente nel Buddhismo è considerata la via di elezione: molto efficacemente Daniel Brown, nel libro “The great way. The stages of meditation in the Mahamudra tradition” riporta questa indicazione tradizionale:

La non-distrazione è il cammino di tutti i Buddha.

La non-distrazione è l’amico e l’insegnate della virtù.

La non-distrazione è il migliore di tutti gli insegnamenti.

La non-distrazione, questa consapevolezza del continuum mentale, è la via di mezzo dei Buddha dei tre tempi.

Il mistico e poeta cristiano Angelus Silesius, vissuto nel diciassettesimo secolo, ci dice:

Dio, il cui amore e gioia

sono presenti ovunque,

non può venire a trovarti

a meno che tu non ci sia.

Quindi “esserci”, abitare il presente, dimorare nell’adesso è un fattore chiave sia per chi ricerca la liberazione (moksha), la cessazione della sofferenza (dukkha nirodha), ma anche per chi vuole essere in comunione con Dio.

Clicca per leggere la seconda parte dell'articolo "Yoga Advaita Sahaja Tantra: non-dualità"