Yoga Advaita Sahaja Tantra: il tessuto della vita
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Il terzo termine che ci aiuta nella nostra riflessione è sahaja, che etimologicamante vuol dire sorgere, nascere, accadere insieme o simultaneamente, e che viene tradotto anche con naturalezza e spontaneità.
È meno conosciuto dei termini yoga o advaita, ma non è meno importante: il suo primo utilizzo si può far risalire molto probabilmente alla tradizione Buddhista Sahajayana che emerse tra l'ottavo e il decimo secolo nell'India orientale, l’attuale regione del Bengala, e che poi diede origine alla tradizione contemplativa Indo-Tibetana della Mahamudra.
Nei secoli successivi è stato utilizzato da moltissime tradizioni spirituali indiane per indicare la più alta realizzazione, il nostro stato naturale: ad esempio Ramana Maharshi, uno dei più dei più importanti maestri di Advaita Vedanta del secolo scorso, ha definito con “sahaja samadhi” lo stato meditativo più elevato. Egli disse:
Nel sahaja samadhi hai stabilità e rimani calmo e composto anche quando sei attivo. Realizzi che sei mosso internamente dal Sé reale più profondo. Non hai preoccupazioni, ansietà, problemi, poiché ti rendi conto che non c’è nulla che ti appartiene. Sai che tutto è fatto da qualcosa con cui sei in unione cosciente.
Nella tradizione della Mahamudra sahaja viene tradotto con mente simultanea o mente co-emergente: ma cosa co-emerge? Che cosa sorge insieme, accade simultaneamente? Per rispondere a questa domanda dobbiamo entrare nella dimensione più sottile e, a prima vista, controintuitiva, della non dualità.
Sahaja indica che, in ogni momento di esperienza, la consapevolezza e i suoi contenuti, la coscienza e il mondo, il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto sorgono insieme, accadono simultaneamente. Non significa però negare concettualmente quello che nella filosofia occidentale viene definito come dualismo soggetto-oggetto; significa invece, attraverso una pratica contemplativa adeguata, fare esperienza, un’esperienza non concettuale dell’inseparabilità, del sorgere simultaneo di ciò che percepisce-conosce e di ciò che è percepito-conosciuto.
Al momento molto probabilmente questo non è il nostro sentire: nel nostro stato mentale abituale solitamente percepiamo un “io-qui-dentro” separato dal “mondo-là-fuori”; va bene, per ora ci basta accorgerci di come è per noi adesso, e lasciare la mente aperta, sensibile, ricettiva, spaziosa, senza cercare di risolvere la cosa razionalmente. Possiamo considerala una ipotesi di lavoro, una possibilità.
Un’altra parola molto importante nella spiritualità indiana è tantra. Essa ha molti significati, e viene tradotta in vari modi, come ad esempio espansione della coscienza, oppure sistema, dottrina, e può essere compresa e sperimentata a tanti livelli.
Andrè Van Lysebeth, uno dei primi studiosi e praticanti occidentali che si sono interessati allo yoga e al tantrismo, nel libro “Tantra L’altro sguardo sulla vita e sul sesso”, ne dà questa interessante definizione:
Il Tantra percepisce l’universo come un tessuto dove tutto si incastra, dove tutto si sostiene, dove tutto agisce su tutto.
Questo mi sembra il significato più interessante. Se riflettiamo al processo di tessitura tradizionale attraverso un telaio, vediamo che dei fili, inizialmente separati, vengono “messi insieme”, “tessuti insieme” andando a formare una unica “struttura” dove non c’è separazione, dove c’è continuità, e tutto è in relazione reciproca, tutti i fili si sostengono vicendevolmente e formano una rete di interconnessioni.
Fuor di metafora, possiamo dire che ognuno di noi è intessuto con e dalla vita stessa: tantra è accorgersi di questo tessuto della vita che ci sostiene e ci lega gli uni agli altri e all’universo intero; tantra è vivere a partire da questa interconnessione.
Questo significa smettere di separare puro e impuro, sacro e profano, spirituale e mondano: il luogo sacro dove siamo chiamati a vivere con saggezza è proprio qui, proprio adesso, è proprio lì dove siamo in ogni momento.
Chogyal Namkhai Norbu, maestro di Dzogchen che ho seguito per molti anni, ripeteva molto spesso che tantra vuol dire continuità, e un tessuto è proprio un continuum dove nulla si può separare. Nello Dzogchen si considera che questa continuità è duplice: in primo luogo c’è la continuità che è in relazione all’inseparabilità tra consapevolezza e contenuti della consapevolezza, come abbiamo già visto; in secondo luogo la consapevolezza stessa, la coscienza continuamente è, continuamente esiste, e, al contempo, tutti i vari fenomeni che sperimentiamo come “il mondo” continuamente si manifestano, continuamente vengono in essere.
Nel Buddhismo, come un po’ in tutte le tradizioni spirituali indiane, viene enfatizzano il non attaccamento, la non appropriazione, proprio perché il percepire-conoscere non può essere bloccato, fermato, ma si manifesta senza soluzione di continuità, incessantemente.
Non c’è un “luogo” separato chiamato liberazione dove possiamo rifugiarci per sempre: la liberazione si trova proprio lì dove già siamo, si manifesta nell’essere svegli e contemporaneamente nell’essere non impegnati, non coinvolti. Non si tratta di andare all’interno piuttosto che all’esterno, ma di essere totalmente qui; non si tratta di controllare o bloccare il percepire conoscere ma di lasciar fluire, di lasciar essere, con una chiara presenza consapevole.
Ho ricevuto anche molti insegnamenti nella tradizione Indo-Tibetana della Mahamudra: in generale il termine Mahamudra viene tradotto con “grande sigillo” o “grande gesto”, però ho trovato molto più interessante e feconda la dicitura “grande abbraccio”. Quando abbracciamo un amico è sempre un atto reciproco: noi abbracciamo lui e contemporaneamente lui ci abbraccia.
Se riflettiamo forse possiamo renderci conto che il nostro più grande amico è la vita stessa, e che c’è sempre questo “movimento” reciproco, nel quale più noi andiamo verso la vita e più lei viene verso di noi, più abbracciamo la vita e più la vita ci sostiene; come in una danza senza fine, noi siamo “portati” dalla vita e nello stesso tempo noi “portiamo” la vita, siamo noi che diamo un orientamento alla nostra vita. Attraverso la pratica contemplativa ci orientiamo verso una maggiore consapevolezza, una maggiore tranquillità e nello stesso tempo siamo disponili, accoglienti, ricettivi nei confronti di ciò che ci propone la vita.
Panikkar identifica nel “suo aspetto ASSOLUTO, per non dire a volte assolutista” la quarta caratteristica della spiritualità Indù.
Tapas, l’ardore spirituale, il fuoco della ricerca è certamente uno degli aspetti della spiritualità indiana, però non saprei dire se questa sia veramente una peculiarità indiana; questa tendenza ad “assolutizzare”, un po’ in tutti i campi, non solo nella spiritualità, mi sembra che sia una caratteristica certamente presente anche in occidente.
In India come in occidente c’è una tendenza ad idealizzare e assolutizzare il frutto della pratica, a vederlo come uno stato del nostro essere che, una volta raggiunto, cambia totalmente noi stessi e la nostra vita per sempre: possiamo avere questa idea che, una volta risvegliati, vivremo il resto dei nostri giorni in uno stato di beatitudine ininterrotta, dove tutti gli accadimenti della vita saranno solo ed esclusivamente positivi e piacevoli.
Ritengo che sia un modo di vedere sbagliato, che crea una inutile sofferenza, e che non ci aiuta nel cammino contemplativo.
Certo rimanere in mezzo al guado non è una posizione comoda, e forse è naturale voler andare sull’altra sponda, per usare una metafora molto comune nella spiritualità indiana: però questa è appunto solo una metafora, quindi da prendere per il giusto verso.
Non è forse vero che siamo sempre in mezzo al fiume del percepire conoscere? Non è forse vero che siamo sempre immersi in questo mare fantasmagorico, misterioso e stupefacente di immagini, suoni, sensazioni corporee, pensieri, emozioni, stati d’animo, consapevolezza? Essendo sempre immersi nel fiume delle percezioni, allora non è forse vero che la cosa migliore è imparare a fluire e a lasciar fluire?
Attraverso la pratica contemplativa coltiviamo l’atteggiamento di essere continuamente in accordo con il fluire della vita: svegli, sensibili, senza trattenere nulla, senza respingere nulla, apprezziamo con meraviglia il manifestarsi del “mondo” dentro e fuori di noi, senza aggiungere nulla e senza togliere nulla.
Volendo essere ancora più chiari possiamo porci due domande. In primo luogo possiamo chiederci se e in che modo la pratica contemplativa rende più facile e più piacevole la nostra vita; secondariamente possiamo riflettere se e in che modo la pratica contemplativa cambia in meglio ciò che siamo.
La vita è fatta di alti e di bassi, di piacere e di dolore, di successi e di insuccessi e questo non può cambiare, è nella natura stessa della vita: ciò che certamente cambia, attraverso un allenamento contemplativo continuo, è il nostro atteggiamento, è come ci mettiamo in relazione con i vari aspetti della vita. Da una parte siamo più presenti, più svegli, e vediamo più chiaramente, percepiamo con più intensità e chiarezza; e, nello stesso tempo, rimaniamo liberi, rimaniamo in equilibrio, siamo molto meno “perturbarti”, sia dagli aspetti piacevoli, e sia dagli aspetti spiacevoli: siamo in armonia con la vita così come si manifesta.
Allo stesso modo noi non possiamo cambiare ciò che siamo. Ciò che può accadere è di scoprire chi siamo veramente, è di scoprire ciò che già siamo più autenticamente, al di sotto della maschera della personalità, delle caratteristiche psicologiche individuali, che al più possiamo un po’ smussare e ammorbidire. Ciò che possiamo perdere è ciò che fin dall’inizio non c’è mai stato, cioè questa illusione di separatezza e permamenza. Ciò che possiamo guadagnare è quello che è sempre presente: la totalità della vita che si manifesta in noi e attraverso di noi.
Come per la vita “là fuori”, anche per la vita “qui dentro”, la chiave è l’atteggiamento, il modo che abbiamo di metterci in relazione con noi stessi: se siamo pazienti, gentili, in intimità e amicizia con noi stessi, allora possiamo, forse in modo un po’ inaspettato, e forse solo per alcuni momenti, scoprire e prendere dimora nella pace, nel silenzio, in quella consapevolezza spaziosa che è sempre qui, sempre a portata di mano, ma sembra sempre sfuggirci.
La contemplazione come atteggiamento è una pratica sempre accessibile, alla portato di tutti, proprio in questo preciso istante: un atteggiamento di maggiore presenza e di maggiore disponibilità e apertura si può coltivare in ogni momento, in ogni situazione. Si può coltivare sia in quelle circostanze favorevoli, come un ritiro di meditazione, o durante la pratica meditativa giornaliera, e sia nelle condizioni meno favorevoli, come un lavoro particolarmente stressante, oppure nel mezzo di relazioni difficili.
Vorrei concludere con questa frase di Carol Wilson, che riassume in modo sintetico, chiaro ed efficace quando ho cercato di descrivere in questa ultima parte:
Ho passato parecchi anni della mia pratica di meditazione in attesa del momento in cui, una volta per tutte, sarei approdata al risveglio. Pensavo che questo evento avrebbe avuto luogo mentre ero immersa in uno stato di meditazione profonda, dopodiché il resto della mia vita sarebbe stato tutto una crociera. Ora, se noi consideriamo la pratica meditativa in questo modo, ossia la concepiamo come un insieme di attività culminanti in una esperienza specifica e idealizzata – l’illuminazione – dopo la quale la vita scorre lineare e chiara, noi rischiamo di farci sfuggire l’essenza della pratica. Ed è poi facile che ci sentiamo scoraggiati e confusi se vediamo che la chiarezza e il potere dell’esperienza meditativa non si trasferiscono automaticamente nella nostra vita attiva reale. Per me fu un enorme sollievo sbarazzarmi di questa aspettativa non realistica. Allorché ci rendiamo conto che la pratica meditativa più profonda è la coltivazione di un atteggiamento e non la ricerca di una esperienza speciale, allora tutta la nostra vita si apre e ogni attività può diventare un veicolo di risveglio. La vita è fatta di momenti. La pratica di consapevolezza è semplicemente la coltivazione dell’abilità di incontrare qualunque cosa emerge, di momento in momento, con totale presenza e a cuore aperto.
C. Wilson - Do I want to be comfortable or do I want to be free?