Creare le condizioni: presenza mentale e consapevolezza
A Yundon Dorjebal, un grande maestro di Dzogchen fu chiesto: “Che tipo di meditazione fai?”.
E lui rispose: “Su che cosa mai dovrei meditare?”.
Allora gli fu chiesto: "Così voi praticanti di Dzogchen non meditate?”.
E lui: “Quando mai mi sono distratto (dalla contemplazione)”.
Chogyal Namkhai Norbu – Il Cristallo e la Via della Luce
Se consideriamo il nostro stato naturale come una potenzialità, un seme, allora possiamo chiederci in che modo è possibile favorire, creare le condizioni affinché questo seme fiorisca completamente.
Per prendersi cura di un giardino, il giardiniere deve piantare i semi nel terreno appropriato e nella posizione più idonea, togliere le erbe infestanti, innaffiare, potare e così via; oltre a tutte queste cose da fare, il giardiniere deve anche saper aspettare, deve sviluppare fiducia nella capacità della natura di compiere il suo corso, e questo implica non interferire, ma comprendere che i tempi e i modi della fioritura seguono un processo naturale.
Seguire una via di conoscenza, da un certo punto di vista, è proprio come coltivare un giardino, dove noi siamo allo stesso tempo il seme, il terreno e il giardiniere: ciò che facciamo è favorire, creare le condizioni migliori affinchè lo sviluppo del seme della nostra potenzialità arrivi a completa maturazione e fiorisca il nostro stato naturale.
Continuando con l’analogia del seme e del giardiniere, possiamo dire che il seme diventa un fiore “a causa” delle cure amorevoli e sollecite del giardiniere, ma allo stesso tempo il seme sboccia da sè, cioè in modo del tutto spontaneo e naturale, poiché segue la propria potenzialità.
Quindi, nel seguire un cammino di conoscenza, nel processo del fiorire del proprio stato naturale c’è il fare, l’agire, lo sforzo e c’è il lasciar accadere, l’affidarsi, il senza-sforzo; c’è l’intenzione, la volontà, il perseverare e c’è il senza-intenzione, la spontaneità, la naturalezza; da un lato riflettiamo, investighiamo, ci domandiamo “è veramente così?”, e dall’altro ci apriamo al silenzio, alla ricettività, alla spaziosità.
Tutta la pratica si gioca tra questi “estremi”, tra questi “paradossi”, che in realtà non sono estremi né paradossi: la riflessione, l’investigare, il domandarsi non è per trovare la risposta giusta, l’unica eterna verità, ma per discernere, secondo le circostanze e il momento, ciò che è salutare e appropriato, come anche per scoprire e mantenere vivo un senso di apertura, una condizione di non-sapere fino a quando il domandarsi stesso spontaneamente cessa e rimane un silenzio, rimane una viva ricettività, rimane ciò che è.
Avere buone intenzioni e perseverare per metterle in pratica è certamente meglio che avere cattive intenzioni ed essere svogliati, pigri: ma se si rimane a livello di intenzione, di volontà, c’è sempre un attrito, una tensione e non si scopre mai la naturalezza dell’essere.
Se si applica un metodo, una tecnica, all’inizio è certamente vero che c’è “il fare”, c’è lo sforzo, ma questo sforzo non è finalizzato a diventare sempre più forti, dei duri che sanno stringere i denti, oppure a diventare bravi, esperti nella tecnica; al contrario, lo sforzo c’è perché all’inizio non comprendiamo, perché all’inizio non c’è armonia. Quando piano piano acquisiamo efficacia, allora naturalmente “il fare” si trasforma “nell’accadere”, “lo sforzo” si trasforma nel “senza-sforzo”.
È come quando si impara ad andare in bicicletta: all’inizio stringiamo le mani sul manubrio, pensiamo a cosa dobbiamo fare, pedalare, stare in equilibrio, freno davanti, freno dietro, ecc., e inevitabilmente cadiamo; ma, un po’ alla volta, acquisiamo dimestichezza, efficacia, c’è meno tensione, meno pensare, fino a che impariamo ad andare in bicicletta anche senza mani.
Quando ero ragazzo mi piaceva molto andare in bicicletta senza tenere le mani sul manubrio e cercare di fare curve sempre più strette semplicemente usando l’equilibrio, usando il peso del corpo.
Significa che mano a mano che si progredisce nella pratica si acquista familiarità, si acquista sempre più armonia, efficacia, e lo sforzo del fare naturalmente diminuisce.
Ora possiamo chiederci se c’è un metodo, una tecnica, una chiave che ci permette di progredire in modo sicuro nella nostra ricerca interiore.
Se partiamo dalla nostra esperienza ordinaria, quotidiana, possiamo comprendere molto facilmente come la distrazione, la continua dispersione mentale siano un problema: infatti un po’ tutte le tradizioni spirituali indicano nella presenza mentale, nella capacità di riportare e mantenere la mente nel presente una chiave della pratica; unita a questa continua attenzione rilassata c’è la capacità naturale della mente di ri-conoscere istantaneamente ciò che sta accadendo proprio nel momento in cui sta accadendo.
Il maestro thailandese Achaan Chah descrive queste due facoltà nel seguente modo:
Sati è la capacità di riportarci al presente, come quando ci chiediamo “Cosa sto facendo?”. Sampajanna è la consapevolezza che sto facendo questo e quest’altro.
Non sto parlando di cose strane o esoteriche: anche nella nostra esperienza ordinaria, quando ci sono sufficienti rilassamento, agio e interesse, certamente è anche presente un certo grado di presenza mentale e di riconoscimento di ciò che avviene: il problema è che nessuno ci ha mai insegnato a riconoscere, a dare valore e a coltivare queste due facoltà.
Tradizionalmente si usa il termine consapevolezza per indicare queste due facoltà mentali, cioè il dimorare nel momento presente e il ri conoscere ciò che sta accadendo nell’istante in cui accade. Poiché di momento in momento, presenza e riconoscimento, attenzione e cognizione avvengono simultanemente, allora usiamo il termine consapevolezza per indicare queste due facoltà mentali come se fossero un'unica cosa, anche se, in generale, è possibile che ci sia attenzione senza chiara cognizione di ciò che sta accadendo, che ci sia una certa presenza mentale senza un chiaro riconoscimento, cioè senza “vivere” pienamente l’esperienza.
È bene ricordare che consapevolezza, in questo contesto, è un termine “tecnico”, cioè un termine che non va sottovalutato, che non va preso come qualcosa di scontato solo perché conosciamo la lingua italiana e più o meno in italiano sappiamo cosa significa. È un termine che va investigato, compreso e soprattutto sperimentato e ancora sperimentato: come per portare un muscolo al massimo della sua funzionalità occorre esercitarlo e non basta conoscere razionalmente quali sono gli esercizi appropriati, così anche per la consapevolezza occorre allenamento. Con l’allenamento la si conosce e la si apprezza sempre di più.
Anche se il “gusto” della consapevolezza è unico ed è della massima semplicità, quando occorre indicarlo attaverso le parole, le varie tradizioni, i vari maestri che operano all’interno di culture e lingue diverse adottano anche termini diversi, al fine di porre l’accento su alcune sfumature, su alcune qualità piuttosto che su altre.
Per esempio, in inglese possiamo trovare i termini mindfulness, awareness, attention, o presence, da soli o uniti ad aggettivi, come in choiceless awareness, bare attention o instant presence; in italiano le varie sfumature possono essere rese di volta in volta con i termini attenzione pura/nuda, attenzione aperta e rilassata, presenza istantanea, osservazione silenziosa e non giudicante, essere qui e ora, stato di contemplazione, eccetera.
Ecco come la consapevolezza viene descritta in modo molto semplice, e nello stesso tempo molto efficace e profondo, dal maestro contemporaneo Thich Nhat Hanh:
Siete bambini intelligenti e sono certo che potete mettere in pratica quanto vi dirò. La Grande Via che ho scoperto è sottile e profonda, ma chiunque sia disposto a impegnare il cuore e la mente sarà in grado di seguirla e capirla. Bambini, dopo avere sbucciato un mandarino potete mangiarlo con consapevolezza o distrattamente. Cosa significa mangiare un mandarino con consapevolezza? Mangiando un mandarino, sapete che lo state mangiando. Ne gustate pienamente la fragranza e la dolcezza. Sbucciando il mandarino, sapete che lo state sbucciando; staccandone uno spicchio e portandolo alla bocca, sapete che lo state staccando e portando alla bocca; gustando la fragranza e la dolcezza del mandarino sapete che ne state gustando la fragranza e la dolcezza. Il mandarino che Nandabala mi ha offerto aveva nove spicchi. Li ho messi in bocca uno per uno in consapevolezza e ho sentito quanto sono splendidi e preziosi. Non ho dimenticato il mandarino, e così il mandarino è diventato qualcosa di molto reale. Se il mandarino è reale, anche chi lo mangia è reale. Ecco cosa significa mangiare il mandarino in consapevolezza.
Bambini, cosa significa mangiare un mandarino senza consapevolezza? Mangiando un mandarino, non sapete che lo state mangiando. Non ne gustate la fragranza e la dolcezza. Sbucciando il mandarino, non sapete che lo state sbucciando; staccandone uno spicchio e portandolo alla bocca, non sapete che lo state staccando e portando alla bocca; gustando la fragranza e la dolcezza del mandarino, non sapete che ne state gustando la fragranza e la dolcezza. Così facendo, non sapete apprezzarne la natura splendida e preziosa. Se non siete consapevoli di mangiarlo, il mandarino non è reale. Se il mandarino non è reale, neppure chi lo mangia è reale. Ecco cosa significa mangiare il mandarino senza consapevolezza.
Bambini, mangiare il mandarino con presenza mentale significa essere davvero in contatto con ciò che mangiate. La vostra mente non rincorre i pensieri riguardo allo ieri o al domani, ma dimora totalmente nel momento presente. Vivere con presenza mentale e consapevolezza vuol dire vivere nel momento presente, con il corpo e la mente che dimorano nel qui e ora.
Questo brano è molto intenso e denso: ogni volta che lo si legge si scopre qualcosa di nuovo. Di seguito vorrei fare alcune considerazioni con l’invito al lettore di rileggere più volte la citazione, magari a distanza di tempo, per scoprire da solo ciò che contiene.
Innanzitutto è il Buddha stesso che sta insegnando ai bambini: questo implica, da un lato, che la pratica è molto semplice e non richiede nessuna conoscenza intellettuale, dall’altro potrebbe significare che occorre “farsi bambini”, cioè ritrovare la freschezza, la purezza, un modo di essere e di guardare non condizionato.
Poi viene detto che per seguire la pratica occorre “impegnare il cuore e la mente”, quindi non una cosa da prendere alla leggera, ma qualcosa che richiede interesse, energia e perseveranza a tutti i livelli del nostro essere.
É interessante inoltre la scelta dell’azione del mangiare il mandarino, cioè qualcosa che investe il senso del gusto: ri conoscere è sapere che stiamo sperimentando qualcosa nel momento stesso in cui accade, dove sapere significa proprio “gustare il sapore dell’esperienza”. Verso la fine del brano inoltre viene usata la parola contatto, dove il tatto è, insieme al gusto, l’altro senso che, per generare una percezione sensoriale, richiede un contatto più diretto, grossolano, con il proprio oggetto: cioè si fa esplicito riferimento a un tipo di ri conoscere che non è concettuale, verbale, razionale, ma è una “conoscenza per contatto diretto, immediato”.
Un altro aspetto molto importante è che attraverso la consapevolezza il mandarino è (più) reale e questo fa sì che anche noi diventiamo (più) reali; viceversa, potremmo anche dire che, quando dimoriamo nella consapevolezza, noi siamo (più) reali e quindi il mandarino diventa (più) reale, cioè le percezioni dei cinque sensi e della mente diventano più chiare, nitide, vediamo meglio ciò che c’è.
Il brano finisce con la frase “il corpo e la mente che dimorano nel qui e ora”, che rimanda un senso di agio, di benessere, un essere finalmente a casa.
Anche nella tradizione filosofica e contemplativa occidentale è ben conosciuta l’importanza dell’attenzione, della continua presenza mentale: a testimonianza di ciò vorrei citare due brevi brani, uno preso dal bellissimo libro di Pierre Hadot Esercizi spirituali e filosofia antica, e l’altro, più poetico, tratto dal Walden di Henry David Thoreau.
Abbiamo detto che l’atteggiamento fondamentale del filosofo stoico o platonico era la prosochè, l’attenzione a se stesso, la vigilanza di ogni istante. L’uomo “vigile” è sempre perfettamente cosciente non solo di ciò che fa, ma anche di ciò che è, ossia della sua posizione nel cosmo e del suo rapporto con Dio.
A volte non potevo permettermi di sacrificare a nessun lavoro, sia mentale che materiale, il fiore del momento presente. (…)
Per noi spunta solo quel giorno al cui sorgere siamo svegli.
Certe volte, soprattutto se si è completamente a digiuno di pratica, e magari si è letto molto in proposito, si può avere l’impressione che la consapevolezza sia qualcosa di costruito o artificiale, oppure qualcosa che “si fa” quando si pratica, ma è separato dalla vita di tutti i giorni.
In realtà la consapevolezza ci appartiene autenticamente, primordialmente, è già qui, non c’è proprio niente da costruire, ma anzi si tratta di riscoprire una semplicità d’essere che è sempre con noi; e poiché è completamente naturale, da un certo punto vista non fa nessuna differenza se siamo all’interno di una sessione di pratica formale o se invece siamo in una situazione del tutto ordinaria della nostra vita quotidiana. A questo proposito vorrei terminare questa parte dedicata alla consapevolezza con la seguente citazione, tratta da Benvenuti a Plum Village – a cura dei monaci e delle monache di Plum Village:
La presenza mentale è l’energia che si genera essendo consapevoli di tutto ciò che sta accadendo nel momento presente. È una pratica ininterrotta di contatto profondo con la vita, in ogni momento della giornata. Essere consapevoli significa essere pienamente vivi, presenti e in contatto con le persone che ci circondano e con ciò che stiamo facendo. Tra corpo e mente si stabilisce un’armonia che ci accompagna mentre laviamo i piatti, mentre guidiamo la macchina o facciamo la doccia al mattino.
In un certo senso consideriamo il seme della consapevolezza come il seme più importante, sapendo però che occorre “innaffiare”, come direbbe Thich Nhat Hanh, anche gli altri semi salutari; per esempio quelli della calma, della tranquillità, del raccoglimento stabilità mentale, i semi dell’energia, della perseveranza, del rilassamento agio, della gioia, della fiducia e della saggezza.
Parimenti dobbiamo smettere di innaffiare i semi non salutari: quelli dell’agitazione, della frenesia, della distrazione dispersione mentale, i semi della tensione, della tristezza, della sfiducia e del dubbio scettico.
Innaffiare e smettere di innaffiare non vuol dire aderire acriticamente a una visione moralistica che separa una volta e per sempre ciò che è buono da ciò che è cattivo, ma significa comprendere da se stessi, in relazione alle circostanze concrete in cui di volta in volta ci troviamo, cosa è salutare, cosa è di beneficio per noi, per gli altri e per il mondo, e cosa invece non lo è; una volta compreso ciò che è salutare, allora intenzionalmente lo perseguiamo con metodi e mezzi che hanno la sua stessa qualità, la sua stessa natura.
Il Buddha ha detto:
L’odio non può mai cessare con l’odio.
Solo l’amore mette fine all’odio.
Questa è la legge eterna.
E inoltre:
Non c’è una via verso la felicità, la felicità stessa è la via.
Che Thich Nhat Hanh ha parafrasato con:
Non c’è una via per la pace, la pace è la via.
Questo significa che la famosa frase “il fine giustifica i mezzi”, che tanto condiziona il nostro modo di vedere, è completamente sbagliata: in nessun modo si può portare la pace attraverso mezzi violenti e questo è del tutto evidente nella storia dell’uomo, dove ogni guerra non ha fatto altro che creare le condizioni per quella successiva.
Poiché in un contesto di guerra le azioni di corpo, parola e mente sono caratterizzate da odio, violenza, paura, sopraffazione, vendetta, allora, sia nel vincitore che nel vinto, ogni guerra non fa altro che gettare i semi (le propensioni latenti) di odio, violenza, paura, sopraffazione e vendetta; quando sorgono le circostanze appropriate, maturano e si manifestano in una nuova guerra.
Purtroppo la guerra non è solo quella che si combatte tra i popoli, c’è anche una costante guerra interiore, cioè non siamo quasi mai veramente in accordo, in pace, né con le cose che vediamo “là fuori” e nemmeno con le cose che sentiamo “qui dentro”; la buona notizia che ci offre il Buddha è che è possibile riconciliarci con noi stessi, che è possibile trovare la pace in noi stessi, ci basta solo imparare ad abitare la pace, ad abitare la felicità.
È un modo di vedere molto positivo e che ci responsabilizza, perché indica che c’è bisogno di un cambio di prospettiva, che c’è bisogno di imparare a sintonizzarsi, a prendere dimora in quelle qualità salutari che ognuno di noi naturalmente possiede e conosce, e queste qualità, un po’ alla volta, cresceranno e si stabilizzeranno fino a fiorire del tutto.
In fondo tutto è molto semplice: se piantiamo semi di carota e li coltiviamo, raccoglieremo carote; per contro, se piantiamo semi di zucca e li coltiviamo, raccoglieremo zucche, tutto qui.
Riassumendo, anche se la pratica, il metodo, la via di conoscenza che seguiamo sono “solo” lo strumento, allo stesso tempo è vero che la meta che raggiungiamo avrà le qualità, le caratteristiche dello strumento usato; analogamente, se ci prefiggiamo una meta, per perseguirla occorre usare quei metodi, quelle pratiche che hanno le stesse qualità, le stesse caratteristiche della meta stessa.