Familiarizzarsi con la mente: la contemplazione
A volte in meditazione c’è una lacuna nella coscienza ordinaria, un’improvvisa e completa apertura. Questo avviene solamente quando si smette di pensare in termini di meditante, meditazione e oggetto della meditazione. È un barlume di realtà, un lampo improvviso che al principio si presenta raramente ma poi a poco a poco sempre più spesso. Può non essere affatto una esperienza dirompente e esplosiva, ma solo un momento di grande semplicità.
Chogyam Trungpa
Da una parte si può dire che il processo meditativo implichi l’allenamento e quindi lo sviluppo di una serie di qualità mentali salutari, ma, da un’altra punto di vista, si può affermare che la meditazione consiste nel riscoprire e prendere dimora in ciò che già siamo, in ciò che siamo più autenticamente.
Riguardo al processo meditativo ci sono quindi due prospettive, due punti di vista, entrambi validi, entrambi utili, due approcci che non si escludono ma anzi, nel loro essere complemetari, si rinforzano vicendevolmente.
Nel capitolo precedente abbiamo descritto l’approccio che considera la meditazione come la coltivazione di qualità mentali salutari, ora proveremo a trattare l’approccio complementare.
La seguente citazione di tradizione tibetana descrive bene questo cambio di prospettiva:
La meditazione non è
Abituarsi è
“La meditazione non è” significa che non è un metodo per fare, ma per non fare. Non siamo coinvolti in nessuna attività, non vogliamo imporre niente, alimentare niente, aggiungere niente. Non stiamo elaborando niente: semplicemente siamo. Possiamo paragonarlo ad un succo di frutta che si chiama “solo succo”, per indicare che niente è stato aggiunto e niente è stato tolto. Così è anche la nostra pratica: Solo Essere. Ci manteniamo semplicemente in uno stato di attenzione e di nuda osservazione.
“Abituarsi è” significa che la pratica consiste proprio nell’abituarsi a Essere. Ci acclimatiamo a ciò che siamo realmente.
Ngakpa Chogyam - Tecniche di meditazione tibetana
Nella tradizione tibetana, gom è il termine che indica la meditazione: esso significa più propriamente familiarizzarsi con la mente, familiarizzarsi con la nostra natura più autentica.
Quindi, in questa prospettiva, si suppone che non siamo mai separati dalla nostra natura più autentica, che essa è sempre con noi, sempre a portata di mano: si tratta di riscoprirla, si tratta di riconoscerla e di abitarla, di vivere in questo riconoscimento.
La nostra natura è intrinsecamente buona, e quindi non c’è niente da sviluppare, da accrescere, niente da migliorare, ma al contrario, si tratta di abbandonare tutte le fabbricazioni mentali, tutte le attività e i modi di vedere artificiali, e a questo punto, naturalmente, si manifesterà ciò che siamo più autenticamente, potremo riconoscere la nostra natura e viverla a pieno.
Sebbene oramai di uso comune la parola meditazione non è del tutto appropriata e per certi versi è fuorviante: essa non corrisponde al senso profondo dei termini sanscriti Bhavana e Dhyana o al temine tibetano Gom.
Infatti, ad esempio, il dizionario Zanichelli, riporta i seguenti significati della parola meditare: “considerare a lungo e attentamente, far oggetto di riflessione”, “preparare o macchinare con la mente”, “concentrarsi pensando o riflettendo”, “soffermarsi a considerare con attenzione”. Tutti i significati fanno in qualche modo riferimento all’attività del pensare perché etimologicamente il termine meditare viene dal latino “meditari”, che a sua volta deriva da “mederi”, che discende dalla radice indoeuropea “med” che significa appunto pensare, riflettere. Può essere interessante notare che anche le parole medico e medicina derivano da mederi, e quindi nel termine meditazione si può forse ritrovare anche il significato di “prendersi cura” di se stessi.
Anche se meno usato, il termine occidentale più appropriato è contemplazione che ha origine dal latino contemplari, ‘trarre qualche cosa nel proprio orizzonte’, che è formato dal suffisso cum e dalla parola templum. Il templum era lo spazio del cielo che l'augure (sacerdote e indovino dell’antica Roma) circoscriveva col suo lituo (bastone sacro) per osservare all'interno del medesimo il volo degli uccelli, e quindi effettuare delle divinazioni. Da cui il significato di contemplazione che, sempre secondo il vocabolario Zanichelli, è “guardare attentamente, specialmente con ammirazione, raccoglimento e simili”.
Questa disquisizione sui due termini meditare e contemplare non è una dissertazione oziosa e artificiale, ma corrisponde, anche nella nostra tradizione contemplativa antica, a tipi diversi di pratiche e di stati mentali. Vediamo come Willigis Jäger li descrive:
La Preghiera Contemplativa: un’antica Tradizione Cristiana
Contemplazione è la parola che fu usata per tutto il Medio Evo per la preghiera senza un oggetto concreto. Era la forma più alta di preghiera e l’obiettivo di tutti gli insegnamenti. Venivano distinte tre forme di preghiera: oratio (preghiera orale), meditatio, e contemplatio. Teresa d’Avila ci tramandò una classificazione ancora più precisa: preghiera orale, preghiera mentale, meditazione (probabilmente con lettura) e la preghiera del ricordo (attiva e passiva). Dopo queste forme, Teresa ci dice che inizia la vera preghiera contemplativa: la preghiera di quiete e contemplazione (chiamata anche unione mistica, immersione, o l’arte dell’amore). Le quattro forme di preghiera di Teresa si rivolgono alle capacità intellettuali e sensoriali degli esseri umani. Cioè esse coinvolgono i sensi, i sentimenti e la ragione. Queste forme di preghiera si occupano dei contenuti della coscienza, cioè, attraverso immagini, parole, metafore, o la natura vengono stimolati i poteri dell’anima. I mistici chiamano questo meditazione. La contemplazione, d’altra parte, è possibile solo quando la ragione, la memoria e la volontà raggiungono la quiete. Nella contemplazione tutte le forze psichiche operano passivamente. Nessun contenuto cognitivo è accettato; immagini religiose, visioni, dialogo interno, e pensieri pii vengono superati. La contemplazione è pura osservazione. Qualcosa accade alla preghiera. È un risveglio alla nostra vera essenza divina.
Willigis Jäger - Search for the Meaning of Life. (traduzione personale dall’inglese)
Questa citazione è molto importante perché, prima di tutto, mette in evidenza come anche qui in occidente ci fosse una tradizione contemplativa raffinata che purtroppo è andata largamente perduta; inoltre spiega chiaramente la distinzione tra i vari tipi di pratiche, la preghiera orale, la meditazione e la contemplazione.
Ciò è interessante perché anche nella tradizione Buddhista troviamo delle classificazioni molto simili se non addirittura identiche.
Nella seguente citazione il Maestro Tibetano Chogyal Namkhai Norbu puntualizza con chiarezza la distinzione tra meditazione e contemplazione presente nella tradizione Dzogchen:
Nell’insegnamento Dzog-chen è molto importante la distinzione tra i termini ‘meditazione’ e ‘contemplazione’. La pratica dello Dzog-chen è la pratica della contemplazione, in cui si dimora in quello stato non duale, continuamente autoliberantesi, che è al di là del livello concettuale dell’attività della mente e che tuttavia racchiude in sé anche il lavorio della cosiddetta “mente ordinaria”, o pensiero razionale. Il pensiero può sorgere, e sorge, anche durante la contemplazione, ma non si è condizionati da esso, poiché si libera da solo, se viene lasciato come è. Nella contemplazione la mente non è impegnata in alcuno sforzo, e non c’è niente da fare o da non fare. Tutto ciò che esiste è proprio com’è, autoperfezionato. D’altra parte, lo Dzog chen intende per ‘meditazione’ le moltissime pratiche che comportano un lavoro della mente, il cui scopo è permettere all’individuo di entrare nello stato della contemplazione. Tali pratiche possono includere i vari modi di concentrare lo sguardo volti a raggiungere uno stato di calma, le varie pratiche di visualizzazione, ecc. Così nella cosiddetta meditazione bisogna fare qualche lavoro con la mente, mentre nella contemplazione no.
Namkhai Norbu – Il Cristallo e la Via della Luce
Le due citazioni mostrano una grande affinità e sostanzialmente un modo di vedere comune, pur nelle differenze di linguaggio e nelle peculiarità delle due tradizioni.
Da un certo punto di vista si può dire che la contemplazione è lo stadio finale di tutte le pratiche meditative, e, nello stesso tempo, si può anche affermare che lo stato contemplativo ha una qualità a se stante, unica, che differisce da tutte le altre pratiche.
È delicato e difficile descrivere come avviene questo passaggio da meditazione a contemplazione: forse si può dire che è qualcosa che appunto avviene, cioè qualcosa che succede al di fuori della volontà e dell’intenzione, anche se una aspirazione e una pratica sembrano necessari. In termini cristiani si può forse parlare di grazia, oppure anche di fede, mentre in alcune tradizioni Buddhiste si parla di trasmissione da mente a mente, cioè di una risonanza che si crea tra un Maestro che dimora stabilmente in questo stato e un discepolo che “è pronto”: ma di nuovo sorge la questione di cosa significhi essere pronto e di come si può arrivare a essere pronto.
Senza provare a fornire un commento alle due citazioni che sono di per sé già molto dense e cariche di significati vorrei provare proporre nel seguito qualche riflessione su alcune caratteristiche della contemplazione.
Vorrei iniziare dicendo che la dimensione della contemplazione è quella del qui e ora, del hic et nunc come la tradizione occidentale ci tramanda.
Qui non è un luogo particolare, in qualsiasi posto siamo sempre qui: questo significa che non c’è un altrove, un luogo particolare, un aldilà, che sia pure il Paradiso o la Terra Pura dove vorremmo andare o essere.
L’ora, l’adesso, il momento presente, non è un tempo particolare, in qualsiasi momento è sempre adesso: il passato è un ricordo che viviamo nel presente, il futuro è una pianificazione o una fantasia che sperimentiamo nel presente.
Quando si dimora tranquillamente nel qui e ora non ci si preoccupa del domani, non si è motivati dalla bramosia del guadagno, non si è condizionati dal dualismo successo insuccesso e quindi l’azione non è fatta in preparazione di un qualche favoloso futuro ma è totale, significativa e appagante in se stessa. Il contemplativo agisce senza motivazione, la sua azione si completa in se stessa: A. Silesius indicava ciò scrivendo: “La rosa non ha un perché, fiorisce perché fiorisce”.
Qui e ora è un centro che non è né all’interno, né all’esterno, e né da qualche altra parte, è un centro che è sempre presente e allo stesso tempo, in qualche modo, anche nascosto. Quando si dimora tranquillamente nel qui e ora le esperienze sensoriali non sono negate o svilite in nome di qualche esperienza superiore e nemmeno si nega o si svilisce il livello mentale dei pensieri e delle emozioni: questo centro nascosto, ma anche sempre disponibile, è uno spazio ampio e confortevole dove naturalmente si armonizzano e si integrano sia il livello sensoriale che il livello mentale, come preziosi ornamenti che arricchiscono lo spazio stesso.
In questo spazio ampio non c’è un oggetto particolare, un qualcosa di speciale su cui meditare o pregare o semplicemente portare l’attenzione: non vi è un lassù contrapposto ad un quaggiù, né alimentiamo alcuna attività artificiale della mente.
Poiché non c’è competizione, né sforzo, né volontà, c’è un senso di pace, di appagamento interiore, di libertà e di gioia.
Un’altra caratteristica della contemplazione su cui vorrei proporre qualche riflessione è che è un modo di percepire e conoscere la vita che non è condizionato dal dualismo soggetto oggetto.
Se partiamo dal nostro vissuto immediato possiamo constatare che c’è un flusso costante di esperienze che, quando sono più legate ai sensi, siamo abituati a considerare come esperienze esterne, cioè che provengono da “là fuori”, mentre quando sono più legate alla mente siamo abituati a considerare interne, perché provengono da “qui dentro”.
Ma se, attraverso la pratica meditativa, osserviamo più da vicino la nostra esperienza, senza un atteggiamento separativo, è possibile scoprire che in realtà c’è un unico campo, un unico spazio dove tutta la nostra esperienza avviene.
In questo spazio, in questo unico ambiente, all’inizio occorre distinguere il soggetto, ciò che conosce, dall’oggetto, ciò che è conosciuto:
In pratica il tuo compito è di comprendere la differenza tra la mente cuore e le attività della mente cuore. Semplicemente questo. …
Praticare significa ricordare la prospettiva, e coltivare una consapevolezza che distingue il conoscere in se stesso da ciò che è conosciuto. Noi possiamo conoscere le sensazioni nel corpo; possiamo conoscere i sentimenti, i movimenti energetici, le formazioni mentali, le idee, le impressioni, i concetti, le memorie e le fantasie. Dobbiamo conoscere tutto ciò come attività. Se non li riconosciamo come attività, che cosa succede? Noi diventiamo le attività e siamo catturati in queste attività. Nel Buddhismo Giapponese c’è un detto ricco di significato: “Ridi, ma non perderti nel ridere; Piangi, ma non perderti nel piangere.” Possiamo anche dire, “pensa ma non perderti nel pensare; gioisci, ma non perderti nel gioire”.
Ajahn Munindo - Unexpected Freedom (traduzione personale dall’inglese)
Occorre distinguere le attività della mente cuore dalla mente cuore stessa, distinguere lo sfondo conoscitivo da ciò che è in pimo piano, cioè il flusso della nostra esperienza, senza però separarli, senza separare il soggetto dall’oggetto.
Dal punto di vista dell’esperienza contemplativa si può dire che all’inizio della pratica ciò che possiamo sperimentare è una maggiore chiarezza dell’oggetto meditativo, unita ad una maggiore chiarezza del soggetto.
Si sviluppa quello che in alcune tradizioni viene chiamato “il testimone”: cioè man mano che siamo meno coinvolti, identificati con le nostre esperienze sensoriali e cognitive, man mano che sviluppiamo raccoglimento, presenza e riconoscimento, ci sembra che ci sia un “osservatore” che “guarda” un po’ dall’esterno la nostra esperienza; allo stesso tempo possiamo scoprire come gli oggetti dei sensi e della mente diventano più chiari, la percezione diventa più fine e acuta.
Un tipico esempio di ciò è il fatto che, una volta entrati in uno stato di attenzione chiara e rilassata, ci “accorgiamo” del suono di un orologio nella stanza che prima non avevamo notato oppure percepiamo sensazioni corporee che in uno stato abituale di attenzione non notiamo; man mano che lo stato contemplativo si approfondisce possiamo notare il sorgere e lo svanire dei pensieri, fino ad essere in grado di percepire l’intenzione del sorgere di un pensiero, senza che questo si formi compiutamente.
Questo però è solo uno stadio di un percorso che quando viene sostenuto e indirizzato in modo adeguato ci porta a fare esperienza del semplice percepire conoscere: cioè sia l’oggetto (ciò che è conosciuto) che il soggetto (ciò che conosce) naturalmente sfumano, vanno come in secondo piano, si dissolvono, e ciò che rimane, ciò che viene in primo piano è proprio il flusso stesso del percepire conoscere.
Nisargadatta Maharaj descrive questo modalità di percepire e di essere nel seguente modo:
Nella triade “colui che conosce”, “conoscere”, “oggetto della conoscenza”, soltanto il “conoscere” è reale. L’ “io sono” e il “questo” sono illusori. Chi conosce? Cosa è conosciuto? Non ci sono certezze, tranne il fatto che esiste il “conoscere”.
Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello
Chi conosce? Cosa è conosciuto? Quando investighiamo, sia il soggetto conoscente che l’oggetto conosciuto perdono la loro “concretezza”, la loro “densità”, diventano come trasparenti; inoltre svanisce quella staticità illusoria e possiamo notare il loro continuo cambiamento. Ad un certo punto ci accorgiamo che ciò che rimane è il puro esperire senza più nessuno che fa l’esperienza.
Joanna Macy lo descrive nel seguente modo:
Nell’epistemologia della causalità reciproca, sia ciò che è conosciuto e sia colui che conosce sono sfuggenti. Nessuno dei due può essere stabilito o determinato come entità statica, autoesistente. Continuamente muovendosi fuori dalla nostra portata mentre cerchiamo di afferrarli, essi suggeriscono che non c’è conoscitore né conosciuto ma piuttosto “il semplice conoscere”.
Joanna Macy – Mutual causality in Buddhism and general systems theory (traduzione personale dall’inglese)
Sebbene le due citazioni facciano riferimento, la prima ad un maestro indiano di Advaita Vedanta del secolo scorso, e l’altra ad una esponente contemporanea dell’ecologia del profondo di tradizione Buddhista, è interessante notare come esse siano sostanzialmente identiche: questo perchè corrispondono ad uno stato contemplativo, in generale non facilmente accessibile, ma di cui è possibile avere una chiara esperienza.
Vorrei concludere questo paragrafo con alcune riflessioni sulla semplicità; tutte le disquisizioni sulla contemplazione fin qui illustrate potrebbe far pensare a qualcosa di complesso, artificiale o a qualcosa di straordinario, eclatante, ma nella frase a inizio paragrafo Chogyam Trungpa afferma che “Può non essere affatto una esperienza dirompente e esplosiva, ma solo un momento di grande semplicità”.
La vita di tutti i giorni nei cosiddetti paesi sviluppati è certamente molto complicata e innaturalmente artificiosa e il termine semplicità, in molte persone, potrebbe evocare mancanza o addirittura povertà. Ma la parola semplicità non indica affatto qualcosa di negativo o una carenza ma al contrario ha un significato positivo: si riferisce a qualcosa che non è manipolato, non è contraffatto.
Inoltre semplicità non è da confondere con essere sempliciotti, stupidotti, e neppure con una visione riduzionista che non contempla la complessità e l’articolazione della nostra esperienza e del mondo.
Per semplicità si intende una qualità interiore che ci permette di lasciare andare tutto ciò che è artificioso, cioè quella sovrastruttura, quel qualcosa di “in più”, di aggiunto che impedisce di riconoscere e di entrare in contatto con ciò che è autentico e naturale: semplificare significa riscoprire ciò che è stato nascosto dalla sovrastruttura e dimorare di nuovo nel proprio stato naturale.
Per quanto riguarda la nostra vita di tutti i giorni, mi sembra interessante il consiglio che ho ascoltato da un maestro tibetano che esorta ad essere “complicati fuori e semplici dentro”: la sfida è quella di saper funzionare appropriatamente nella nostra società e nello stesso tempo mantenere una semplicità interiore.
Non sono solo le tradizioni contemplative a indicarci la strada della semplicità, anche i poeti la cantano come nella seguente poesia di Boris Pasternak:
Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi
e frequentando il futuro nella vita di ogni giorno,
non si può non incorrere alla fine, come in un'eresia,
in un'incredibile semplicità.
Ma noi non saremo risparmiati,
se non sapremo tenerla segreta.
Più d'ogni cosa è necessaria agli uomini,
ma essi intendono meglio ciò che è complesso.
Boris Pasternak, Le onde
In questa poesia è interessante notare come la semplicità venga definita eretica e incredibile, qualcosa che ci accade, che incontriamo quasi nostro malgrado. Inoltre, proprio come la pratica interiore, essa va custodita, tenuta segreta, non perché di per sé ci sia qualcosa di segreto nella semplicità (essa, in ogni momento, è proprio qui di fronte ai nostri occhi), ma perché, se non la custodiamo, sia rischiamo di perderla e sia rischiamo di non essere compresi.
Grande semplicità, incredibile semplicità, o, come Eliot la definisce, semplicità assoluta, una semplicità assoluta dove tutto sarà bene:
Immediatamente, qui ora, sempre
Una condizione di semplicità assoluta
(Che costa non meno di ogni cosa)
E tutto sarà bene e
Ogni genere di cose sarà bene.
T.S. Eliot – Quattro quartetti (traduzione personale dall’inglese)
Benchè in buona parte del mondo si mangi tuttora con le mani, noi occidentali siamo abituati, (dis)educati a mangiare con le posate, e lo consideriamo normale. Personalmente trovo molto bella la battuta di una signora Indiana riportata in un libro di Terzani la quale afferma che “mangiare con le posate è come farsi la doccia con l’impermeabile”. Senza entrare nella diatriba su quale sia il modo migliore di mangiare, certamente si può dire che, per un occidentale, per tornare a mangiare con le mani con naturalezza e poter apprezzare il cibo insieme alle esperienze sensoriali associate, occorre fare uno sforzo per dis educarsi, cioè per ritornare alla opzione più semplice occorre lasciare andare ciò a cui siamo abituati.
Nella ricerca interiore è un po’ la stessa cosa: all’inizio si tende a privilegiare pratiche complicate proprio perché noi siamo complicati, la nostra mente è complicata, ma poi, man mano che la comprensione migliora, man mano che lasciamo andare le sovrastrutture inutili, allora si può riconoscere e apprezzare che le pratiche più semplici sono anche quelle più utili ed efficaci.
Achaan Chah ha detto: Mantieni la pratica semplice, e aderisci al momento presente.
La semplicità interiore ci permette di ricollegarci alla libertà interiore e viceversa la libertà interiore ci permette di lasciare andare tutte le inutili sovrastrutture e di dimorare nella semplicità interiore.