Come un’ape cerca il nettare da tutti i tipi di fiore, si cerchino gli insegnamenti ovunque.
Come un cervo che va a trovare un posto tranquillo per pascolare, si cerchi la solitudine, per digerire tutto quello che si è raccolto.
Come un pazzo, al di là di ogni limite, si vada ovunque piaccia, vivendo come il leone, libero da tutte le paure.
Namkhai Norbu – Il Cristallo e la Via della Luce
Ci sono molte tradizioni spirituali, molti lignaggi, molte vie di conoscenza, e all’interno di ogni tradizione ci sono molte scuole, molte suddivisioni; ogni lignaggio ha un suo modo di vedere, un suo sistema di pratiche, dei metodi che enfatizzano questo o quell’altro aspetto.
Io credo che sia corretto conoscere molti metodi, anche di tradizioni diverse, e imparare a utilizzarli a seconda delle circostanze e delle esigenze personali: utilizziamo quelli che intuitivamente sentiamo più adatti a noi in funzione del momento. Parafrasando una frase del vangelo si può dire che ogni metodo è fatto per l’uomo, non l’uomo per il metodo.
Penso che sia possibile trarre beneficio da molte tradizioni contemporaneamente. Se ti piacciono le arance le mangerai, va bene, ma nulla ti impedisce di gustare anche un kiwi o un mango. Perché scegliere per te soltanto un tipo di frutta quando tutta l’eredità spirituale del genere umano è a tua disposizione? È possibile avere radici buddiste e insieme anche radici cristiane o ebraiche: ci rafforza molto.
Thich Nhat Hanh – Libero ovunque tu sia.
Personalmente sono stato “esposto” e ho seguito insegnamenti appartenenti a diverse vie di conoscenza e penso che si possano seguire più tradizioni nella misura in cui questo non crea confusione, nella misura in cui c’è una comprensione dei vari metodi e di come questi metodi si integrano dentro di noi, esperienzialmente.
Inoltre è importante lasciare andare ogni giudizio di valore sui vari metodi e tradizioni (più o meno elevato, più o meno efficace, più o meno diretto, ecc.) comprendendo che il valore di un metodo è in relazione a chi lo pratica e a come viene praticato.
La pratica migliore quindi è quella che funziona per noi in un determinato momento, quella che, esattamente nelle circostanze in cui siamo, ci aiuta a ritrovare calma e tranquillità, chiarezza e centratura, benessere ed equilibrio, gioia ed empatia.
È il praticante, il ricercatore spirituale che sperimentando, utilizzando i metodi di una tradizione, ogni volta la riscopre e la rende viva.
Tradizionalmente la ricerca interiore viene descritta come il percorrere una via, un cammino di conoscenza: ma che cosa significano veramente le parole “via”, “cammino” e “percorrere” in un contesto spirituale?
La via, il cammino non è come una autostrada, cioè come un percorso definito e costruito una volta per tutte da altri, un percorso che noi ci limitiamo a seguire più o meno meccanicamente, con lo scopo di raggiungere una certa meta, non è così: un cammino interiore è piuttosto come un sentiero di campagna che da una parte è stato “segnato” da coloro che lo hanno percorso nel passato, e nello stesso tempo viene ri creato continuamente da chi lo percorre.
Questo significa che siamo noi, attraverso la nostra pratica, a ri creare continuamente la via, e, in ultima analisi, non c’è nessuna via, ma noi stessi siamo la via.
Non puoi percorrere la via fino a che tu non sei diventato la via stessa.
Il Buddha
Viandante non c’è sentiero, sei tu che fai il sentiero camminando !
Raimon Panikkar – Saggezza stile di vita
Usando la metafora della via si vuole indicare che c’è un processo, che c’è una evoluzione, appunto un “camminare”, e siamo noi, il sistema mente corpo che pone in essere, che manifesta questo processo.
Quindi occorre avere ben presente che il cammino interiore non è un “oggetto esterno”, non è una “cosa” che ci viene data una volta per tutte dalla tradizione e/o dall’insegnante. Certo se osserviamo le varie tradizioni spirituali possiamo notare come ci siano molte “cose esterne”, quali libri, statue, dipinti, chiese, monasteri, centri spirituali, gompa, zendo, rituali, regole, credenze, ecc.: tutte queste cose hanno in qualche modo una ragione d’essere, ma occorre comprendere e continuamente ricordare che sono secondarie, utili solo nella misura in cui ci riconnettono con un sentire interiore, con un modo di essere.
Percorrere un cammino spirituale significa che proviamo interesse, studiamo e mettiamo in pratica un insieme di metodi, di tecniche, di atteggiamenti interiori e modi di vedere appartenenti ad una o più tradizioni.
Nei tre giorni che passeremo insieme presenterò vari metodi che costituiscono un utile strumento per analizzare noi stessi, e ci consentono di incamminarci su una via di scoperta e di sviluppo interiore. Prendete come laboratorio il vostro corpo e la vostra mente e provate ad utilizzare queste tecniche; vale a dire, impegnatevi in una ricerca seria sul funzionamento della vostra mente, e studiate la possibilità di compiere mutamenti positivi all’interno di voi stessi.
S.S. Il Dalai Lama – La via del Buddhismo Tibetano
Il nostro corpo e la nostra mente sono sia lo “scienziato” che effettua gli esperimenti e sia il “laboratorio” sul quale vengono effettuati gli esperimenti: questo significa che percorrendo un cammino spirituale mettiamo in moto un processo di sviluppo interiore, favoriamo una trasformazione, una crescita organica e naturale che può essere definita come il “fiorire” delle nostre potenzialità.
Questa crescita organica e naturale può anche essere paragonata al processo metabolico della digestione: come il cibo viene messo in bocca, masticato, ingerito, trasformato attraverso un processo chimico complesso e infine assimilato fino a diventare il nostro corpo, così, attraverso una pratica continua e costante, gli insegnamenti sono trasformati e assimilati fino ad “incarnarsi”, cioè noi diventiamo testimonianza vivente degli insegnamenti.
Alla luce del fatto che noi siamo la via allora è facile comprendere che la separazione che spesso viviamo, soprattutto all’inizio del nostro cammino interiore, tra la pratica spirituale e la vita quotidiana è del tutto artificiosa e controproducente.
Finchè si vive questa separazione c’è tensione, c’è una sofferenza che è legata appunto alla non integrazione dei vari aspetti della nostra esistenza.
Ken Wilber si esprime in questo modo:
La vera pratica spirituale non è qualcosa che si fa venti minuti al giorno, per due ore al giorno o per sei ore al giorno. Non è qualcosa che si fa una volta al giorno al mattino, o una volta alla settimana la domenica. La pratica spirituale non è una attività tra le altre attività umane; è la base di tutte le attività umane, la loro fonte e la loro convalida.
Ken Wilber - Oltre i confini
Oggi, nel nostro mondo globalizzato, perlomeno qui in occidente, abbiamo un facile accesso a molte tradizioni spirituali, anche se molto spesso il contatto con le diverse tradizioni è molto superficiale e avviene principalmente su un piano intellettuale.
Mettere il cuore, impegnare se stessi in una pratica autentica, e quindi dedicare tempo, energia, perseveranza, entusiamo, sono requisiti essenziali nel percorrere la via.
D’altro canto occorre anche mantenere un atteggiamento equilibrato: se da una parte è certamente importante e utile seguire una tradizione, un insegnante, un maestro, è sicuramente altrettanto importante non farci fagocitare dalla tradizione o dall’insegnante, e mantenere sempre un approccio basato su un sano buon senso e su una verifica sperimentale personale di quello che ci viene proposto.
Personalmente io sono sempre stato più interessato ai metodi e alle persone vere, reali, che li praticano e/o li insegnano piuttosto che alle tradizioni, alle scuole, ai lignaggi, alle strutture più o meno burocratiche e istituzionalizzate: in qualche modo mi sono sempre sentito libero nella mia ricerca.
Vimala Thakar, una maestra indiana contemporanea, nel seguente brano puntualizza in modo molto chiaro ed efficace che la libertà che cerchiamo attraverso la ricerca interiore è qualcosa con cui dobbiamo sintonizzarci, che dobbiamo imparare ad esercitare e ad abitare fin dall’inizio, ed è inseparabile dalla ricerca stessa.
Se non siamo liberi all’inizio di un’indagine non c’è possibilità di respirare liberamente quando l’avremo terminata, perché la comprensione al termine della ricerca non è che la fioritura della ricerca stessa. La comprensione non è qualcosa di separato e non ha un’entità separata dalla ricerca stessa. Se non c’è la libertà, la fragranza, il sapore, la bellezza della libertà, una via e un approccio non autoritari, allora naturalmente, al termine della ricerca, non può esserci lo sbocciare, il fiorire della libertà.
Vimala Thakar – Il mistero del silenzio.
È interessante notare come in alcune tradizioni spirituali fosse codificato che un allievo dovesse rimanere col proprio insegnante per dieci o dodici anni e poi dovesse andarsene, dovesse cioè scoprire dentro di sé il valore e il significato degli insegnamenti ricevuti, e avesse il compito e la libertà di manifestare ciò che aveva compreso nel modo a lui più consono: quindi un riconoscimento del valore della libertà e della autenticità.
Libertà non significa però che si può fare tutto ciò che si vuole, che non ci sono regole, che non c’è una disciplina e delle pratiche da eseguire: certamente la serietà, l’energia e la perseveranza con cui si segue un cammino di ricerca interiore sono molto importanti.
Occorre però riscoprire fin dall’inizio della nostra ricerca quella libertà interiore, quella purezza di cuore, quella sensibilità che permette di non attaccarci ai modi di vedere, ai metodi, alle pratiche che utilizziamo, che fa in modo che la pratica interiore non sia un altro peso da aggiungere al già pesante fardello che portiamo sulle spalle.
Non si tratta di aggiungere qualche mobile esotico all’arredamento della nostra gabbia, ma di trovare la chiave per uscire dalla gabbia.
Per una persona che si rompe una gamba, il periodo di riposo, il gesso, le stampelle e tutte le cure a cui è sottoposto sono solo dei mezzi temporanei, ancorché importanti e utili, per poter ritornare a camminare e correre liberamente; allo stesso modo tutte le tradizioni spirituali con i loro modi di vedere, i metodi e le pratiche relative, sebbene certamente molto importanti e molto utili, sono e vanno visti fin dall’inizio come dei mezzi temporanei: al momento appropriato tutte le stampelle vanno gettate via se si vuole tornare a correre liberamente.
Inoltre, pur riconoscendo che il processo di guarigione non è lineare e che ci possano sempre essere delle ricadute, è importante durante la cura stessa favorire e sperimentare maggiore benessere, maggiore gioia, maggiore leggerezza, maggiore libertà: se non è così dobbiamo chiederci il perché; dobbiamo chiederci se per caso non siano in azione quelle abitudini, quei condizionamenti culturali che ci fanno cadere nel tranello di pensare che senza fatica e senza dolore non si ottiene niente, che ci spingono a considerare la pratica come una medicina amara che dobbiamo prendere.
Se il praticante, il discepolo fin dall’inizio cerca di riscoprire una condizione di libertà interiore, allora qual è la funzione, il compito dell’insegnante, del maestro? Nisargadatta Maharaj dà la seguente a risposta:
Un vero maestro, però, non imprigiona il discepolo in un determinato schema di idee, sentimenti e azioni. Al contrario, gli mostra pazientemente la necessità di essere libero da ogni idea o modello comportamentale, di essere attento e serio, e di fluire con la vita ovunque essa lo porti; non per gioire o soffrire, ma per imparare e capire. Sotto la guida di un buon maestro il discepolo impara ad imparare, non a ricordare e obbedire. Il satsang, lo stare in compagnia di spiriti nobili, non modella ma libera. Diffida di tutto ciò che ti rende dipendente.
Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello.