Allenare la propria sensibilità etica

Vivere secondo la gerarchia naturale non significa seguire una serie di rigide regole o organizzare le vostre giornate secondo sterili comandamenti e codici di comportamento. Il mondo ha quell’ordine, potere e ricchezza che possono insegnarvi a condurre la vostra vita in maniera intelligente, con gentilezza nei confronti degli altri e attenzione verso voi stessi.
Chogyam Trungpa – Shambhala La via sacra del guerriero.
Trovo che sia difficile e delicato affrontare la dimensione etica: c’è sempre il pericolo di cadere, da una parte, nella rigida affermazione di una serie precetti, di doveri, una lista cose “buone” da fare e cose “cattive” da evitare; dall’altra, sentendo quanto sia controproducente la visione corrente della morale coercitiva, normativa, si finisce per cadere nell’atteggiamento opposto, negando qualsiasi valore alla dimensione etica.
In generale, un po’ in tutte le tradizioni, gli aspetti etici vengono tramandati come un insieme di regole che molto spesso sono definite in modo negativo, cioè non fare questo, non fare quell’altro: occorre comprendere che dietro alla formulazione negativa sono presenti delle qualità, dei valori che sono patrimonio naturale dell’essere umano. Occorre cioè non fermarsi alla formulazione superficiale, ma comprendere e mettere in pratica ciò che veramente le parole stanno ad indicare.
All’interno di un percorso di ricerca interiore, coltivare la dimensione etica non significa seguire per paura e/o interesse un insieme di precetti morali, ma neppure rompere con tutte le regole affermando che la morale non esiste e che ognuno può fare quello che gli pare: esiste una via di mezzo che consiste nel riconoscere la nostra bontà fondamentale e nell’allenare quegli aspetti che sono una manifestazione di questa bontà.
Questa via di mezzo si basa sul riconoscere, allenare e attualizzare la nostra naturale sensibilità etica che è parte di ciò che già siamo, della nostra natura più autentica.
La sensibilità etica si manifesta nell’agire ed è coltivata deliberatamente insieme agli altri aspetti del cammino: l’agire appropriato e salutare nutre la sensibilità etica e, a sua volta, la sensibilità etica è la base del nostro agire appropriato e salutare.

Sia nel Buddhismo che nello Yoga, l’aspetto etico è parte integrante del cammino: ad esempio nello Yoga delle otto membra i primi due aspetti, yama e niyama, definiscono la dimensione etica e non sono separabili dai rimanenti aspetti.
Come chiarisce molto bene A.G. Mohan nella seguente citazione tutte le otto membra (“anga”)  sono intrecciate inseparabilmente e si compenetrano.

Ci serviamo del termine “anga”, “membra”, per indicare ognuna di queste parti della pratica. Simili a rami di un albero, esse si sviluppano contemporaneamente e non come stadi successivi, anche se, nella trattazione, vengono elencate secondo un ordine che implica un movimento dal piano concreto a quello sottile, dai rapporti esterni a uno stato perfezionato di introspezione. In pratica però, l’esperienza di ciascuna informa sempre gli altri.
A. G. Mohan – Lo Yoga per il corpo il respiro e la mente

Yama e Niyama sono dei modi di essere, degli atteggiamenti che vanno coltivati, sia nella relazione con gli altri e con il mondo e sia nella relazione con noi stessi.
Gli Yama sono dei valori universali della Vita, delle qualità che sono alla base di una vita armoniosa. Sono cinque e possiamo descriverli sinteticamente nel modo seguente: la non violenza e quindi il rispetto totale della vita (Ahimsa), la veridicità o autenticità (Satya), il non rubare e quindi l’onestà (Asteya), il vivere nella consapevolezza della realtà ultima che è non dualità (Brahmacarya), la non avidità, non possessività o sobrietà (Aparigraha). Non rappresentano delle rigide regole di condotta ma dei principi universali verso cui orientiamo il nostro comportamento e la nostra vita in generale.
I Niyama sono delle qualità che coltiviamo in noi stessi, sono degli atteggiamenti interiori che ci permettono di vivere una vita armoniosa e quindi di realizzare le qualità universali degli Yama proprio in noi stessi e nelle nostre relazioni. Negli Yoga Sutra ne vengono elencati cinque: la purezza (Shauca), contentezza o appagamento interiore (Santosha), austerità o disciplina (Tapas), lo studio di sé e quindi la riflessione o introspezione (Svadhyaya), l’abbandono al divino (Ishvara pranidhana).
Molto spesso, nell’insegnamento corrente dello Yoga, si possono notare una serie di fraintendimenti: da una parte c’è chi non tratta per niente l’aspetto etico, quasi come se non facesse parte integrante della tradizione yoga, mentre altri ne parlano come di pratiche separate, come aspetti che vengono prima delle altre pratiche, quelle più importanti; oppure c’è chi considera la dimensione etica dello yoga come fosse qualche cosa che fa parte della cultura indiana, ma che nella nostra cultura possiamo dare per scontato o che non è molto rilevante.
A me pare invece che, proprio perché nella nostra cultura c’è una forte carenza e incomprensione della dimensione etica, sia molto importante una riflessione e una coltivazione costante degli aspetti etici dello yoga, una famigliarizzazione e un allenamento che non sia separato dalle altre “membra”, ma simultaneo, integrato, completamente compenetrato, tanto nella pratica delle asana e del pranayama quanto in quella della meditazione.
Se riflettiamo ad esempio su ahimsa, la non violenza, che, generalizzando un po’, sintetizza e racchiude in sé un po’ tutte le altre qualità, innanzitutto possiamo dire che forse dovrebbe essere tradotta più propriamente con innocenza, non nuocere, cioè un modo armonioso di vivere. Questo significa non solo che c’è un rispetto totale della vita e che per questo, ad esempio, cerchiamo di non uccidere i piccoli insetti, ma soprattutto indica un animo gentile, l’essere in amicizia, indica il coltivare con pazienza l’amicizia verso noi stessi e verso la nostra esperienza. Non nuocere sia a livello grossolano, fisico, e sia a livello sottile, mentale, psicologico: non “uccidiamo” i nostri pensieri e i nostri sentimenti, né “uccidiamo” i pensieri e i sentimenti degli altri.
Una pratica integrata prevede che, proprio nelle asana come in tutti gli altri aspetti dello yoga, noi non siamo in competizione né con noi stessi né con gli altri, noi non siamo in conflitto, in guerra con con la nostra esperienza, ma sappiamo invece riconoscere, accogliere e lasciare andare ciò che di momento in momento viviamo, anche se questo non ci piace o non corrisponde ad una certa immagine di noi stessi o di quello che la tradizione ci tramanda.
Vimala Thakar sintetizza nel seguente modo la dimensione etica dello Yoga:

Quando sei consapevole che la Vita è una totalità organica e che nella Vita ogni cosa è interconnessa, naturalmente c’è un urgenza di vivere armoniosamente con tutte le cose e con tutti gli esseri. Ti comporti in modo intelligente così che c’è armonia con la specie umana e con quelle non umane, c’è armonia con le montagne, i fiumi, gli oceani, gli alberi, gli uccelli.
Vimala Thakar – Glimpses of Raja Yoga (traduzione personale dall’inglese)


Tradizionalmente l’ottuplice sentiero Buddhista è suddiviso in tre ramificazioni denominate saggezza, etica e contemplazione, le quali sono parti essenziali e non separabili della via. La saggezza o discernimento comprende il retto modo di vedere e la retta intenzione, la dimensione etica è suddivisa in retta parola, retta azione e retti mezzi di sussistenza, mentre l’aspetto della contemplazione è composta dal retto sforzo, dalla retta consapevolezza e dal retto raccoglimento stabilità mentale.
Sebbene il Buddhismo sia considerato la via di mezzo per eccelleza, non è infrequente imbattersi, a seconda delle circostanze e della tradizione seguita, in uno degli estremi menzionati in precedenza: cioè da un lato c’è chi considera la sensibilità etica come una rigida disciplina morale basata sul seguire regole e comportamenti prefissati e, dall’altro lato, c’è chi non tiene in nessun conto la dimensione etica e, ad esempio, enfatizza solamente l’aspetto contemplativo.
La via di mezzo è quella di comprendere che la pratica contemplativa conduce alla saggezza, cioè al fiorire di una comprensione intuitiva autentica, la quale ci permette di riscoprire la nostra naturale sensibilità etica, che, a sua volta, fornisce una base stabile per lo sviluppo della pratica contemplativa, e così di seguito, in un processo senza soluzione di continuità. I tre aspetti, saggezza, sensibilità etica e pratica contemplativa, formano quindi una unità organica inseparabile che si può metaforicamente paragonare alle tre gambe di uno sgabello: senza una gamba lo sgabello “non sta in piedi”, perde la sua funzione e, anzi, può diventare pericoloso se proviamo a sederci.
Nella seguente citazione Bhikku Bodhi usa la metafora dei fili che, intrecciati, formano una fune per enfatizzare l’inseparabilità di tutti gli aspetti dell’ottuplice sentiero.

Gli otto fattori del nobile ottuplice sentiero non sono tappe da percorrere in sequenza, una dopo l’altra. Piuttosto che passi successivi, essi rappresentano una sinergia di elementi paragonabili ai fili attorcigliati a formare una unica fune, che richiede la cooperazione di tutte le fibre per produrre la massima tensione.
Bhikkhu Bodhi – Il nobile ottuplice sentiero

È molto interessante notare come sia nel Buddhismo che nello Yoga la dimesione etica sia considerata fondamentale e si basi sulla comprensione della interconnesione di tutti gli aspetti della Vita. Come nella citazione precedente Vimala Thakar metteva in evidenza che l’urgenza della dimesione etica si basa sulla comprensione che la Vita è una totalità organica, allo stesso modo, nella seguente frase il Dalai Lama mette in evidenza come l’interconnessione, il fatto che non siamo separati dagli altri e dal mondo, e quindi che siamo all’interno, che facciamo parte, di una rete di relazioni reciproche, sia la base di un comportamento etico.

Tutto il pensiero e la pratica buddisti si possono condensare in due principi:
1) adottare una visione del mondo che percepisca la natura interdipendente dei fenomeni, ossia la natura di origine dipendente di tutte le cose e di tutti gli eventi;
2) su questa base, adottare uno stile di vita non violento e che non rechi danno.
S.S. Il Dalai Lama – La via del Buddhismo Tibetano

L’eticità non è un optional, qualcosa in più e di cui si può fare a meno, ma un atteggiamento e un comportamento etico sono alla radice del nostro benessere come del benessere della comunità in cui viviamo e del mondo intero, poiché ciò che facciamo a noi stessi lo facciamo agli altri e ciò che facciamo agli altri lo facciamo a noi stessi.
Quindi una pratica meditativa intrecciata, fondata e ammorbidita da una pratica etica naturalmente riverbera sugli altri attraverso il nostro comportamento, e un comportamento appropriato naturalmente ha una risonanza in noi stessi, nel nostro stato interiore e nella nostra pratica contemplativa.
Alla luce di questa comune visione non sorprende quindi che sia nel Buddhismo come nello Yoga venga indicato un metodo specifico per tranquillizare il proprio cuore e ritrovare la pace interiore.
L’aforisma I.33 degli Yoga Sutra recita: “maitri karuna mudita upekshanam sukha duhka punya apunya vishayanam bhavanatah chitta prasadanam”.
Che Vimala Thakar rende nel seguente modo:

La mente si dispone favorevolmente e si rasserena coltivando l’amicizia, la compassione, l’apprezzamento e l’indifferenza nei confronti del piacere come del dolore.
Vimala Thakar – Lo Yoga oltre la meditazione

Nel Buddhismo le stesse quattro qualità, cioè benevolenza o gentilezza amorevole (in pali metta, in sanscrito maitri), compassione (karuna), gioia compartecipe (mudita), ed equanimità (p. upekkha, s. upeksha), vengono chiamate dimore divine (Brahma Vihara), dimore celestiali, o anche i quattro incommensurabili. Questi nomi poetici stanno ad indicare che la pratica sistematica di queste qualità ci porta a riscoprire la nostra bontà fondamentale, un cuore buono che è sempre presente in noi e che possiamo riscoprire, uno stato di mente cuore che appunto è incommensurabile, cioè non può essere misurato tanto è benefico.

Il termine pali metta ha due significati principali: uno è benevolenza, cioè auspicare, augurare il bene, e quindi orientare il nostro comportamento verso il bene. L’altro significato è amicizia, cioè un atteggiamento fondamentale di amicizia verso noi stessi e gli altri. Spesso si fa riferimento a questa qualità anche attraverso il termine gentilezza amorevole: qui sono indicate due altri aspetti di metta, cioè la gentilezza e l’amore. Per sottolineare l’mportanza della gentilezza il Dalai Lama ha detto: “La mia religione è la gentilezza”. Amore è una parola “difficile” da usare, una parola un po’ abusata; comunque qui non stiamo parlando né di amore romantico e né di amore passionale, ma di un attengiamento amorevole, una capacità di accogliere e di aprirci a tutti gli aspetti della vita. La pratica è quella di coltivare l’intenzione al bene, alla felicità, innanzitutto verso noi stessi e quindi verso tutti gli esseri indistintamente.
Karuna è la compassione, quella sensibilità che ci permette di rimanere aperti di fronte alla sofferenza, che ci permette di essere toccati dal dolore. Non è però da confondere con l’angoscia, la disperazione, la paura: attraverso la compassione non siamo schiacciati dal dolore, ma anzi troviamo la forza per una risposta salutare. Prima di tutto occorre riconoscere che c’è uno stato di sofferenza, poi ci apriamo a ciò che viviamo lasciando andare le resistenze, l’amarezza, l’avversione, la paura; quindi, nel caso che la situazione lo richieda e lo permetta, entriamo in azione per alleviare la sofferenza.
Mudita è la qualità speculare a Karuna: se quest’ultima è la capacità di rimanere aperti e in contatto con la sofferenza, con mudita ci apriamo alla dimensione della gioia, impariamo a gioire della felicità, del successo e della buona fortuna che sono presenti nel mondo. Attraverso la gioia compartecipe impariamo a lasciare andare l’invidia e la gelosia e a sintonizzarci sulla felicità degli altri, impariamo a simpatizzare con la gioia degli altri.
Upekka, l’equanimità è un aspetto fondamentale di tutto il cammino interiore: è quella stabilità, equilibrio e spaziosità della mente cuore che ci permette di non essere portati via, di non essere continuamente sballottati di qua e di là dai continui cambiamenti della vita. Non va confusa con l’indifferenza, con l’insensibilità, non ci separiamo dalla nostra esperienza. L’equanimità ci permette di essere in contatto, di momento in momento, con ciò che viviamo e di accogliere, di lasciare essere.
La nostra vita è un flusso costante di esperienze sensoriali e mentali che continuamente cambiano: in generale, una mente non addestrata reagisce meccanicamente con l’attacamento alle esperienze piacevoli, reagisce con avversione a quelle spiacevoli e scivola nell’illusione quando l’esperienza è neutra. Quando c’è qualcosa che ci piace ne vogliamo sempre di più e non vogliamo perderlo, non vogliamo separarci da ciò che ci piace; quando ciò che viviamo non ci piace cerchiamo di sbarazzarcene prima possibile, oppure alimentiamo l’odio, o proviamo a negare l’esperienza stessa; se l’esperienza è neutra ci addormentiamo, ci mettiamo a fantasticare o ci disconnettiamo.
L’equanimità ci permette di vivere, di momento in momento, la nostra esperienza in modo totale, senza perdere il nostro centro, o, per dirla in modo più tradizionale, senza essere condizionati dall’attaccamento, dall’avversione e dall’illusione.
Come spiega molto efficacemente Sharon Salzberg nella seguente citazione, la fiducia e la sicurezza non nascono dalla reattività compulsiva e dalla volontà di controllo, ma dal rimanere in contatto con ciò che accade realmente; la fiducia e la sicurezza sorgono dall’accogliere la nostra esperienza, qualunque essa sia, e dall’abbracciare il continuo cambiamento.

Questa è la vera natura della vita: nessuno in questo mondo prova solo piacere e mai dolore, nessuno conosce solo guadagno e mai perdita. Aprendoci a questa verità, noi scopriamo che non c’è bisogno di trattenere o allontanare. Invece di provare a controllare ciò che non può essere controllato, possiamo cercare la sicurezza nella capacità di venire in contatto con ciò che accade realmente. Così si tiene conto del mistero delle cose: non giudicare, ma piuttosto coltivare un equilibrio mentale che possa accogliere ciò che viene, qualunque cosa sia. Tale accettazione è la fonte della nostra sicurezza e fiducia. …
Cominciando a capire tutto ciò, passiamo dalla lotta per controllare gli accadimenti della vita al semplice desiderio di relazione con essi, e questo è davvero un cambiamento radicale nel nostro modo di vedere il mondo. …
Quando cominciamo a desiderare di sperimentare ogni cosa, la fiducia e la sicurezza che un tempo abbiamo cercato negando il cambiamento, possiamo trovarle abbracciandolo. Impariamo a metterci pienamente in rapporto con la vita, inclusa l’insicurezza.
Sharon Salzberg – L’arte rivoluzionaria della gioia

Occorre avere una visione dinamica della dimensione etica: noi siamo ciò che coltiviamo, noi diventiamo ciò verso cui ci orientiamo. Proprio come la consapevolzza, la tranqullità o il raccoglimento mentale possono e devono essere coltivate, anche gli aspetti più legati alla dimensione etica vanno allenati e sviluppati.
Nel Buddhismo Theravada esiste una forma di pratica formale di queste quattro qualità che consiste nella ripetizione mentale, gentile e tranquilla, di frasi che rivolgiamo all’inizio a noi stessi e poi, via via, ad altre persone conosciute, per poi passare ad includere tutti gli esseri.
Le frasi hanno lo scopo di evocare le particolare qualità con cui vogliamo sintonizzarci, e sono del tipo: “possa io essere libero dal pericolo”, “possa io esser felice e in pace”, “possa io essere in buona salute e forte”, “possa io vivere con agio”, “possa io essere libero dalla sofferenza”, “possa la tua felicità e successo non finire mai”, “che noi tutti possiamo accettare le cose così come sono”.
Queste quattro qualità vengono anche definite sconfinate per indicare il fatto che sono incondizionate, cioè non sono condizionate da ciò che ci piace o da ciò che non ci piace, ma sono disponibili sempre, per i nostri amici come per i nostri nemici: non separando più le persone amiche, da quelle neutre e da quelle difficili, l’allenamento è proprio quello di sviluppare incondizionatamente in noi stessi questi quattro atteggiamenti fondamentali.

Sebbene ognuna di queste qualità possa essere coltivata in modo specifico, come qualità in sé, occorre anche non dimenticare che queste quattro dimore celestiali non sono separate l’una dall’altra, ma formano un sistema organico.
La benevolenza (metta) rappresenta la base, il terreno fertile su cui si sviluppa tutta la nostra pratica, sia quella indirizzata espressamente verso l’etica e sia quella contemplativa: senza un orientamento fondamentale verso il bene, senza l’amicizia e la gentilezza non può sorgere nulla di salutare.
L’equanimità (upekka) dona l’equilibrio e la stabilità necessaria: è come uno spazio fecondo dove siamo liberi dall’attaccamento e dall’avversione, cioè non siamo portati via né dalla cose piacevoli né da quelle spiacevoli. D’altronde l’equanimità è proprio una delle caratteristiche principali della consapevolezza.
Compassione (karuna) e gioia compartecipe (mudita) rappresentano l’aspetto della sensibilità, la capacità di essere toccati sia dalla sofferenza come dalla gioia: perché funzionino in modo appropriato esse si fondano sul nostro orientamento fondamentale verso il bene, ma soprattutto dovrebbero essere equilibrate dall’equanimità. La capacità di essere toccati dalla sofferenza e dalla gioia dovrebbe, per così dire, andare insieme alla nostra stabilità mentale, cioè la sensibilità è equilibrata dalla capacità di non essere sopraffatti da ciò che sentiamo.