È necessario prima di tutto precisare che la parola Yoga concerne uno stato. Uno stato di unità, uno stato senza separazione né divisione. Questo va detto subito per cominciare. Contrariamente all’immagine che di solito ci preme presentare quando si parla di Yoga, non si tratta di una tecnica, non si tratta di copiare una forma. …
Yoga è unicamente, esclusivamente un’esperienza. Per conoscerla non si può che viverla.
Gerard Blitz – Yoga le regole del gioco
Yoga è unicamente, esclusivamente un’esperienza. Per conoscerla non si può che viverla.
Gerard Blitz – Yoga le regole del gioco
I termini Yoga o Buddhismo fanno riferimento ad un processo che possiamo chiamare viaggio, cammino, pellegrinaggio interiore, e nello stesso tempo indicano uno stato, una qualità d’essere.
Dicendo questo però si entra immediatamente nel cuore del paradosso: com’è l’azzurro del cielo? com’è il dolce del miele? com’è lo stato di yoga?
La descrizione di una esperienza non è l’esperienza stessa; e se siamo condizionati dalla descrizione perdiamo la capacità di vivere appieno l’esperienza nel momento stesso in cui si presenta.
Attraverso questo scritto ho deciso di mettermi in gioco e di riflettere riguardo alla mia esperienza, perciò mi assumo il rischio di provare innanzitutto a indicare cosa non è questo stato.
In primo luogo non è una condizione statica, fissa, bloccata, morta, uno stato senza pensieri emozioni in cui non si percepisce più nulla; ma è invece qualcosa di dinamico e vitale, pieno di energia, dove anzi la nostra percezione conoscenza è più chiara e viva.
Non è nemmeno una “scatola” che ci isola dal mondo, un qualcosa di separato dalla nostra vita ordinaria, un luogo trascendente che si raggiunge con lunghe pratiche esoteriche; ma è anzi qualcosa che include , che unisce, che ci permette di essere in contatto vero con il fluire della totalità della vita e che integra tutte le dimensioni della nostra esistenza.
Inoltre non è una conoscenza concettuale, un insieme di nozioni più o meno sofisticate, una dottrina o una filosofia a cui aderire più o meno acriticamente, una “cosa” della mente che possiamo memorizzare, possedere, o con cui possiamo identificarci.
Infine non è nemmeno in relazione col “fare”, cioè un insieme di metodi, di tecniche da ripetere più o meno meccanicamente, o un insieme di regole e rituali da seguire più o meno rigidamente, ma è invece qualcosa che riguarda la sfera dell’essere, del percepire, del conoscere.
Purtroppo mi rendo conto che non sono molto bravo nella pedagogia tipica di molte tradizioni orientali che, per indicare lo stato di yoga o semplicemente per dare istruzioni di pratica, usano la negazione(neti neti, non questo non quello) senza aggiungere nulla in positivo: noi occidentali tendiamo a non gradire le descrizioni in negativo, ma se ci pensiamo bene esse contengono un senso di libertà e di fiducia veramente molto belli.
L’insegnante ha fiducia che lo stato di yoga, a tempo debito, si manifesterà nell’allievo e gli indica una strada, gli dà un orientamento, e nello stesso tempo lo lascia completamente libero, libero di crescere in modo naturale. L’allievo dal canto suo ha già una certa libertà, non è ossessionato, non ha bisogno di continue risposte, di continue rassicurazioni, ed ha fiducia nell’insegnante.
Detto questo, essendo un occidentale, aggiungerò una precisazione che mi sembra molto importante: quando si parla di ricerca interiore, e soprattutto quando si parla di meditazione, c’è qui in occidente un malinteso molto diffuso, cioè che la pratica meditativa abbia come fine (e anche come mezzo) il fantomatico “vuoto mentale”, inteso più o meno come uno stato di assenza totale di pensieri, oppure anche come un modo di essere simile ad un “vegetale stupido”.
È un malinteso che crea molti problemi a tanti livelli e quindi penso sia importante chiarire l’argomento.
Possiamo certamente dire che, in generale, se una persona non ha seguito nessun cammino di ricerca interiore, allora, ammesso che abbia una qualche consapevolezza dei propri processi mentali, probabilmente sperimenterà la propria mente come completamente piena, invasa da pensieri emozioni che si accavallano uno sull’altro senza nessun intervallo: i pensieri sono pesanti, densi, aggressivi, incalzanti, e si ha l’impressione che non ci sia alcuno spazio tra un pensiero ed il seguente. Nella stragrande maggioranza delle persone non c’è nessuna consapevolezza di vivere in un perenne stato di distrazione dispersione agitazione dovuto proprio all’essere schiavi del flusso incessante di pensieri emozioni.
Il problema però non è relativo al processo del pensare in sé, che è una funzione naturale di ogni essere umano, ma nasce dal fatto che la mente non è allenata, non è educata in modo appropriato.
In un praticante che ha una certa familiarità con i propri processi mentali, i pensieri vengono sperimentati come meno pesanti, meno densi, meno aggressivi e non invadono completamente la mente; tra un pensiero e l’altro ci sono generalmente degli spazi che, in talune situazioni, possono anche essere prolungati, ma la ricerca di questo stato di assenza di pensieri non è il punto principale di una pratica di ricerca interiore. Inoltre, quando i pensieri non disturbano più e c’è una maggiore spaziosità e calma mentale, non significa assolutamente che diventiamo come un “vegetale stupido”, ma al contrario, tutta la nostra esperienza, tutta la nostra percezione diventa più chiara e vivida e ci sentiamo più vitali.
Possiamo quindi certamente dire che in uno stato di presenza chiarezza calma mentale, i pensieri, quando sono presenti, non catturano né disturbano il praticante, ma allo stesso tempo, occorre comprendere che non siamo in guerra, non combattiamo o cerchiamo di bloccare i pensieri. Ecco cosa dice a questo proposito il maestro Chogyal Namkhai Norbu:
Dicendo questo però si entra immediatamente nel cuore del paradosso: com’è l’azzurro del cielo? com’è il dolce del miele? com’è lo stato di yoga?
La descrizione di una esperienza non è l’esperienza stessa; e se siamo condizionati dalla descrizione perdiamo la capacità di vivere appieno l’esperienza nel momento stesso in cui si presenta.
La non distinzione parla in silenzio. Le parole producono distinzioni. Il non manifesto (nirguna) non ha nome. Tutti i nomi si riferiscono al manifesto (saguna). …
Qualsiasi cosa detta non è che parola. Tutto quanto viene pensato non è che pensiero. Il vero significato è inesplicabile, ma se ne può fare esperienza.
Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello.
Qualsiasi cosa detta non è che parola. Tutto quanto viene pensato non è che pensiero. Il vero significato è inesplicabile, ma se ne può fare esperienza.
Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello.
Attraverso questo scritto ho deciso di mettermi in gioco e di riflettere riguardo alla mia esperienza, perciò mi assumo il rischio di provare innanzitutto a indicare cosa non è questo stato.
In primo luogo non è una condizione statica, fissa, bloccata, morta, uno stato senza pensieri emozioni in cui non si percepisce più nulla; ma è invece qualcosa di dinamico e vitale, pieno di energia, dove anzi la nostra percezione conoscenza è più chiara e viva.
L’acqua stagnante non può contenere le spire di un drago.
Detto Chan
Detto Chan
Non è nemmeno una “scatola” che ci isola dal mondo, un qualcosa di separato dalla nostra vita ordinaria, un luogo trascendente che si raggiunge con lunghe pratiche esoteriche; ma è anzi qualcosa che include , che unisce, che ci permette di essere in contatto vero con il fluire della totalità della vita e che integra tutte le dimensioni della nostra esistenza.
Essere illuminati è essere in intimità con tutte le cose.
Dogen
Dogen
Inoltre non è una conoscenza concettuale, un insieme di nozioni più o meno sofisticate, una dottrina o una filosofia a cui aderire più o meno acriticamente, una “cosa” della mente che possiamo memorizzare, possedere, o con cui possiamo identificarci.
Molte persone sfortunate condizionate dai concetti e dalle analisi fanno della conoscenza un oggetto della mente e restano lontane dal senso profondo.
Chogyal Namkhai Norbu – Introduzione diretta allo stato dell’Atiyoga
Chogyal Namkhai Norbu – Introduzione diretta allo stato dell’Atiyoga
Infine non è nemmeno in relazione col “fare”, cioè un insieme di metodi, di tecniche da ripetere più o meno meccanicamente, o un insieme di regole e rituali da seguire più o meno rigidamente, ma è invece qualcosa che riguarda la sfera dell’essere, del percepire, del conoscere.
Purtroppo mi rendo conto che non sono molto bravo nella pedagogia tipica di molte tradizioni orientali che, per indicare lo stato di yoga o semplicemente per dare istruzioni di pratica, usano la negazione(neti neti, non questo non quello) senza aggiungere nulla in positivo: noi occidentali tendiamo a non gradire le descrizioni in negativo, ma se ci pensiamo bene esse contengono un senso di libertà e di fiducia veramente molto belli.
L’insegnante ha fiducia che lo stato di yoga, a tempo debito, si manifesterà nell’allievo e gli indica una strada, gli dà un orientamento, e nello stesso tempo lo lascia completamente libero, libero di crescere in modo naturale. L’allievo dal canto suo ha già una certa libertà, non è ossessionato, non ha bisogno di continue risposte, di continue rassicurazioni, ed ha fiducia nell’insegnante.
Detto questo, essendo un occidentale, aggiungerò una precisazione che mi sembra molto importante: quando si parla di ricerca interiore, e soprattutto quando si parla di meditazione, c’è qui in occidente un malinteso molto diffuso, cioè che la pratica meditativa abbia come fine (e anche come mezzo) il fantomatico “vuoto mentale”, inteso più o meno come uno stato di assenza totale di pensieri, oppure anche come un modo di essere simile ad un “vegetale stupido”.
È un malinteso che crea molti problemi a tanti livelli e quindi penso sia importante chiarire l’argomento.
Possiamo certamente dire che, in generale, se una persona non ha seguito nessun cammino di ricerca interiore, allora, ammesso che abbia una qualche consapevolezza dei propri processi mentali, probabilmente sperimenterà la propria mente come completamente piena, invasa da pensieri emozioni che si accavallano uno sull’altro senza nessun intervallo: i pensieri sono pesanti, densi, aggressivi, incalzanti, e si ha l’impressione che non ci sia alcuno spazio tra un pensiero ed il seguente. Nella stragrande maggioranza delle persone non c’è nessuna consapevolezza di vivere in un perenne stato di distrazione dispersione agitazione dovuto proprio all’essere schiavi del flusso incessante di pensieri emozioni.
Il problema però non è relativo al processo del pensare in sé, che è una funzione naturale di ogni essere umano, ma nasce dal fatto che la mente non è allenata, non è educata in modo appropriato.
In un praticante che ha una certa familiarità con i propri processi mentali, i pensieri vengono sperimentati come meno pesanti, meno densi, meno aggressivi e non invadono completamente la mente; tra un pensiero e l’altro ci sono generalmente degli spazi che, in talune situazioni, possono anche essere prolungati, ma la ricerca di questo stato di assenza di pensieri non è il punto principale di una pratica di ricerca interiore. Inoltre, quando i pensieri non disturbano più e c’è una maggiore spaziosità e calma mentale, non significa assolutamente che diventiamo come un “vegetale stupido”, ma al contrario, tutta la nostra esperienza, tutta la nostra percezione diventa più chiara e vivida e ci sentiamo più vitali.
Possiamo quindi certamente dire che in uno stato di presenza chiarezza calma mentale, i pensieri, quando sono presenti, non catturano né disturbano il praticante, ma allo stesso tempo, occorre comprendere che non siamo in guerra, non combattiamo o cerchiamo di bloccare i pensieri. Ecco cosa dice a questo proposito il maestro Chogyal Namkhai Norbu:
Se il pensiero sorge, sii presente in quello stato;
se il pensiero non sorge, rimani ugualmente presente.
Allora non c’è differenza tra i due momenti.
Chogyal Namkhai Norbu - Il Cristallo e la Via della Luce
se il pensiero non sorge, rimani ugualmente presente.
Allora non c’è differenza tra i due momenti.
Chogyal Namkhai Norbu - Il Cristallo e la Via della Luce