Ecco, quando arrivate dove il pensiero non vi può portare, è proprio allora, in quella quiete, che si sviluppa la saggezza. In quel momento la mente è simile ad una corrente d’acqua, eppure è ferma. Sembra praticamente immobile, eppure scorre. Per questo dico ‘una corrente d’acqua ferma’. In questa mente può nascere la saggezza.
Achaan Chah - Il Dhamma Vivo
Achaan Chah - Il Dhamma Vivo
Nei due capitoli precedenti abbiamo visto che, da una parte, la ricerca spirituale è un viaggio interiore, una via di conoscenza, e quindi un processo, e dall’altra è uno stato, una qualità d’essere, cioè in qualche modo il risultato di questo processo.
In questo non c’è nessuna contraddizione in quanto pratica e risultato della pratica, prassi e comprensione, agire e qualità d’essere sono inseparabili e si condizionano e determinano reciprocamente.
Questa qualità d’essere è proprio il nostro stato naturale, ciò che siamo autenticamente. Questo significa che attraverso la pratica non “costruiamo” qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era, e nemmeno “arriviamo” in qualche luogo sconosciuto: semplicemente ri scopriamo e rendiamo attuale cio che siamo fin dall’inizio.
Anche se le metafore sono per certi versi fuorvianti, possiamo pensare ad una persona che si è rotta una gamba: per un certo periodo dovrà portare il gesso e userà le stampelle per camminare; se vorrà ritornare a correre, una volta guarito dovrà togliere il gesso, reimparare a camminare senza stampelle, rieducare la gamba e allenarsi fino a quando potrà di nuovo correre. In questo processo non ha “costruito” un'altra gamba, ha semplicemente “ri scoperto” la gamba e l’ha allenata ad un funzionamento ottimale.
Per riferirisi al nostro stato naturale in molte tradizioni si usa il termine silenzio: ecco come lo descrive Nisargadatta Maharaji:
Affermare che c’è uno “sfondo silenzioso” significa dire che contemporaneamente c’è un primo piano in qualche modo “rumoroso”: è quindi possibile distiguere, anche e soprattutto esperienzialmente, questi due aspetti, anche se essi non sono assolutamente separati, ma fanno parte della stessa totalità.
È interessante notare come nella citazione all’inizio del capitolo si usi volutamente il paradosso “una corrente d’acqua ferma” per sottolineare questa inseparabilità, cioè la mente è unica e intrinsecamente possiede questi due aspetti di “quiete” e “movimento”: quando questi due aspetti sono in rapporto armonico fra di loro, allora danno origine ad uno stato di “quiete dinamica” dove “può nascere la saggezza”.
Il nostro stato naturale risulta quindi essere al di là della mente razionale, oltre o prima della mente discorsiva, senza per questo esserne separato, ma in qualche modo “racchiude”, “comprende” la mente razionale.
Può essere interessante vedere come anche nella tradizione cristiana si faccia riferimento a questa dimensione che è al di là della mente razionale:
In questo cammino di auto conoscenza, di auto educazione, in questa via che ci porta a riscoprire ciò che siamo veramente e a vivere partendo da questa scoperta, siamo condizionati, ostacolati, frenati da quello che possiamo chiamare il nostro stato abituale, dove abituale è molto diverso da naturale.
Nella nostra vita come nel cammino interiore, siamo condizionati da modelli, da schemi abituali di pensiero e di reazioni emotive che derivano dalle nostre esperienze passate; è un po’ come portare un paio di occhiali con lenti colorate e deformanti: tutto ciò che vediamo, tutta la nostra esperienza è “colorata”, è “deformata” dalle lenti dei nostri condizionamenti, dalle lenti delle nostre impressioni legate alle esperienze passate.
Siamo cioè condizionati da ciò che tradizionalmente viene definito ignoranza illusione (avidya): ignoranza perché non vediamo, non conosciamo ciò che c’è (la nostra vera natura), e illusione perché vediamo, percepiamo conosciamo ciò che non c’è, proprio come in un miraggio.
Questa ignoranza illusione non è quindi qualcosa di passivo, ma anzi è molto attiva, e determina e condiziona il modo in cui ci mettiamo in relazione con il mondo, il modo in cui facciamo esperienza: invece di lasciare fluire in modo naturale il percepire conoscere dei cinque sensi e della mente, a causa dell’abitudine e della distrazione reagiamo meccanicamente con attaccamento, brama, avidità verso “ciò che ci piace”: quando qualcosa ci piace ne vogliamo ancora, ne vogliamo sempre di più e/o non vogliamo che cambi. Nella nostra società consumistica è molto facile vedere all’opera la forza della brama: basta che ci osserviamo quando andiamo al supermercato per comprare le solite due cose e usciamo col carrello pieno!
L’altra faccia dell’attaccamento è l’avversione: sempre a causa dell’abitudine e della distrazione reagiamo meccanicamente con avversione, rabbia, odio verso “ciò che non ci piace”: quando c’è qualcosa che non ci piace non lo vogliamo, vogliamo madarlo via, scacciarlo, oppure neghiamo che ci sia.
Per ritornare a “vedere” le cose così come sono e per riacquistare la libertà dalle nostre reazioni meccaniche e compulsive, duemilacinquecento anni fa il Buddha ha insegnato che non dovremmo attaccarci a nulla: ecco come descrive questo insegnamento fondamentale il maestro Tailandese Buddhadasa.
Secoli dopo il grande maestro Tilopa ha offerto lo stesso insegnamento al discepolo Naropa, con le seguenti parole:
È cioè importante comprendere che, benchè la mente possa essere completamente velata, inquinata, disturbata, proprio la stessa mente ha la capacità di liberarsi da questi condizionamenti.
In generale, tutte le religioni, le filosofie, i vari cammini di conoscenza si possono dividere in due categorie: quelli che credono che l’essenza, la natura primordiale dell’essere umano sia buona, positiva, pura, illuminata, e quelli che credono che in qualche modo sia cattiva, malvagia, negativa, problematica.
Se ci annoveriamo tra i secondi, ne deriva che dobbiamo in continuazione controllare, educare, sforzarci, migliorare, ecc., e in sostanza non possiamo e non potremo mai rilassarci veramente, riposare, gioire, sentirci interiormente appagati, sereni, a casa. Mi sembra una prospettiva poco allettante.
A me pare invece che, anche se il nostro stato mentale attuale, abituale, è totalmente oscurato, anche se non abbiamo nessuna esperienza di questa mente liberata, sia per lo meno affrettato concludere che la nostra natura primordiale sia negativa: mi sembra più intelligente adottare, anche solo come ipotesi di lavoro, la visione “ottimistica”, avere cioè fiducia in una nostra natura che sia intrinsecamente buona e solo temporaneamente oscurata da abitudini non salutari, per quanto radicate e negative possano essere.
Per esempio, quando una persona inizia a fumare deve forzarsi, deve vincere l’iniziale rigetto del corpo che reagisce con tosse e altri fenomeni; piano piano si abitua al fumo e dopo un po’ di tempo ed un certo numero di sigarette il fumo diventa un’abitudine: a questo punto diventa difficile smettere perché ci siamo assuefatti. Per smettere dobbiamo abituarci di nuovo alla condizione di partenza che era libera dal fumo.
Allo stesso modo, avendo dimenticato il nostro stato naturale, pensiamo che il nostro stato abituale di dispersione distrazione frenesia sia veramente ciò che siamo, sia la nostra natura essenziale, ma non è così.
Il maestro Chogyal Namkhai Norbu si esprime in questo modo:
Quindi la mente ha una sua capacità naturale e spontanea di liberarsi dai condizionamenti, dalle abitudini non salutari: nel prossimo capitolo vedremo come è possibile rendere attiva questa capacità.
In questo non c’è nessuna contraddizione in quanto pratica e risultato della pratica, prassi e comprensione, agire e qualità d’essere sono inseparabili e si condizionano e determinano reciprocamente.
Questa qualità d’essere è proprio il nostro stato naturale, ciò che siamo autenticamente. Questo significa che attraverso la pratica non “costruiamo” qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era, e nemmeno “arriviamo” in qualche luogo sconosciuto: semplicemente ri scopriamo e rendiamo attuale cio che siamo fin dall’inizio.
Anche se le metafore sono per certi versi fuorvianti, possiamo pensare ad una persona che si è rotta una gamba: per un certo periodo dovrà portare il gesso e userà le stampelle per camminare; se vorrà ritornare a correre, una volta guarito dovrà togliere il gesso, reimparare a camminare senza stampelle, rieducare la gamba e allenarsi fino a quando potrà di nuovo correre. In questo processo non ha “costruito” un'altra gamba, ha semplicemente “ri scoperto” la gamba e l’ha allenata ad un funzionamento ottimale.
Per riferirisi al nostro stato naturale in molte tradizioni si usa il termine silenzio: ecco come lo descrive Nisargadatta Maharaji:
Nessun pensiero in particolare può rappresentare lo stato naturale della mente, ma solo il silenzio. Non l’idea del silenzio, ma il silenzio in sé. Quando la mente si trova nel suo stato naturale, torna spontaneamente al silenzio dopo ogni esperienza. O, meglio, ogni esperienza avviene sullo sfondo del silenzio.
Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello.
Sri Nisargadatta Maharaj – Io sono quello.
Affermare che c’è uno “sfondo silenzioso” significa dire che contemporaneamente c’è un primo piano in qualche modo “rumoroso”: è quindi possibile distiguere, anche e soprattutto esperienzialmente, questi due aspetti, anche se essi non sono assolutamente separati, ma fanno parte della stessa totalità.
È interessante notare come nella citazione all’inizio del capitolo si usi volutamente il paradosso “una corrente d’acqua ferma” per sottolineare questa inseparabilità, cioè la mente è unica e intrinsecamente possiede questi due aspetti di “quiete” e “movimento”: quando questi due aspetti sono in rapporto armonico fra di loro, allora danno origine ad uno stato di “quiete dinamica” dove “può nascere la saggezza”.
Il nostro stato naturale risulta quindi essere al di là della mente razionale, oltre o prima della mente discorsiva, senza per questo esserne separato, ma in qualche modo “racchiude”, “comprende” la mente razionale.
Può essere interessante vedere come anche nella tradizione cristiana si faccia riferimento a questa dimensione che è al di là della mente razionale:
Lei conosce la mia interpretazione della metanoia. È molto curioso che le traduzioni del Nuovo Testamento sminuiscano il significato di questo termine rendendolo con espressioni moralizzanti del tipo: “Fate penitenza”, “Pentitevi”, “Convertitevi”, anche se più di recente viene tradotto con “Cambiate di mentalità” … Ora, la parola metanoia non significa soltanto questo, ma anche: “Trascendete il nous”; in altre parole: “Superate il mentale, non pensate che il mentale sia tutto …” Ma noi abbiamo perduto questa innocenza, il contatto con la fonte.
Raimon Panikkar – Tra Dio e il cosmo.
Raimon Panikkar – Tra Dio e il cosmo.
In questo cammino di auto conoscenza, di auto educazione, in questa via che ci porta a riscoprire ciò che siamo veramente e a vivere partendo da questa scoperta, siamo condizionati, ostacolati, frenati da quello che possiamo chiamare il nostro stato abituale, dove abituale è molto diverso da naturale.
Nella nostra vita come nel cammino interiore, siamo condizionati da modelli, da schemi abituali di pensiero e di reazioni emotive che derivano dalle nostre esperienze passate; è un po’ come portare un paio di occhiali con lenti colorate e deformanti: tutto ciò che vediamo, tutta la nostra esperienza è “colorata”, è “deformata” dalle lenti dei nostri condizionamenti, dalle lenti delle nostre impressioni legate alle esperienze passate.
Siamo cioè condizionati da ciò che tradizionalmente viene definito ignoranza illusione (avidya): ignoranza perché non vediamo, non conosciamo ciò che c’è (la nostra vera natura), e illusione perché vediamo, percepiamo conosciamo ciò che non c’è, proprio come in un miraggio.
Questa ignoranza illusione non è quindi qualcosa di passivo, ma anzi è molto attiva, e determina e condiziona il modo in cui ci mettiamo in relazione con il mondo, il modo in cui facciamo esperienza: invece di lasciare fluire in modo naturale il percepire conoscere dei cinque sensi e della mente, a causa dell’abitudine e della distrazione reagiamo meccanicamente con attaccamento, brama, avidità verso “ciò che ci piace”: quando qualcosa ci piace ne vogliamo ancora, ne vogliamo sempre di più e/o non vogliamo che cambi. Nella nostra società consumistica è molto facile vedere all’opera la forza della brama: basta che ci osserviamo quando andiamo al supermercato per comprare le solite due cose e usciamo col carrello pieno!
L’altra faccia dell’attaccamento è l’avversione: sempre a causa dell’abitudine e della distrazione reagiamo meccanicamente con avversione, rabbia, odio verso “ciò che non ci piace”: quando c’è qualcosa che non ci piace non lo vogliamo, vogliamo madarlo via, scacciarlo, oppure neghiamo che ci sia.
Per ritornare a “vedere” le cose così come sono e per riacquistare la libertà dalle nostre reazioni meccaniche e compulsive, duemilacinquecento anni fa il Buddha ha insegnato che non dovremmo attaccarci a nulla: ecco come descrive questo insegnamento fondamentale il maestro Tailandese Buddhadasa.
Io definirei il Cuore del Buddhismo con la frase: “Niente a cui attaccarsi”. Nel Majjhima Nikaya il Buddha viene avvicinato da un tale che gli domanda di riassumere l’insegnamento in una unica frase. Il Buddha rispose: “Sabbe dhamma nalam abhinivesaya”. Sabbe dhamma significa “tutte le cose”; nalam, “non ci si dovrebbe”; abhinivesaya, “attaccare”. Niente a cui attaccarsi. Il Buddha proseguì affermando che, chiunque ode questa frase, ode l’intero Buddhismo; chiunque la mette in pratica, mette in pratica l’intero Buddhismo; chiunque ne coglie i frutti, coglie i frutti dell’intero Buddhismo. Comprendere che non c’è niente a cui attaccarsi significa eliminare i virus dell’avidità, dell’odio e dell’illusione; i virus che determinano l’errato comportamento di pensiero, parola e corpo.
…
Allargando il significato, si potrebbe dire: “Nessuno si attacchi o si afferri a nulla assumendolo come l’io o il mio”.
Buddhadasa – Il cuore dell’albero della Bodhi
…
Allargando il significato, si potrebbe dire: “Nessuno si attacchi o si afferri a nulla assumendolo come l’io o il mio”.
Buddhadasa – Il cuore dell’albero della Bodhi
Secoli dopo il grande maestro Tilopa ha offerto lo stesso insegnamento al discepolo Naropa, con le seguenti parole:
Figlio, non sei legato dalla percezione, ma dall’attaccamento. Perciò Naropa recidi l’attaccamento.
Drubwang Tsoknyi Rinpoche – Dignità spontanea
A seconda delle tradizioni, degli insegnamenti e dei testi noi possiamo sentire parlare solo di ignoranza illusione, oppure di “attaccamento brama, avversione odio e ignoranza illusione”, o ancora, come nel caso degli Yoga Sutra di Patanjali, di ignoranza illusione (avidya), senso dell’io (asmita), attaccamento (raga), avversione (dvesa) e paura (abhinivesa), o anche trovare delle liste più lunghe e dettagliate: tutti questi sono definiti veli, inquinanti, contaminazioni, emozioni disturbanti e quindi (per definizione !) non sono il nostro stato naturale.Drubwang Tsoknyi Rinpoche – Dignità spontanea
È cioè importante comprendere che, benchè la mente possa essere completamente velata, inquinata, disturbata, proprio la stessa mente ha la capacità di liberarsi da questi condizionamenti.
In generale, tutte le religioni, le filosofie, i vari cammini di conoscenza si possono dividere in due categorie: quelli che credono che l’essenza, la natura primordiale dell’essere umano sia buona, positiva, pura, illuminata, e quelli che credono che in qualche modo sia cattiva, malvagia, negativa, problematica.
Se ci annoveriamo tra i secondi, ne deriva che dobbiamo in continuazione controllare, educare, sforzarci, migliorare, ecc., e in sostanza non possiamo e non potremo mai rilassarci veramente, riposare, gioire, sentirci interiormente appagati, sereni, a casa. Mi sembra una prospettiva poco allettante.
A me pare invece che, anche se il nostro stato mentale attuale, abituale, è totalmente oscurato, anche se non abbiamo nessuna esperienza di questa mente liberata, sia per lo meno affrettato concludere che la nostra natura primordiale sia negativa: mi sembra più intelligente adottare, anche solo come ipotesi di lavoro, la visione “ottimistica”, avere cioè fiducia in una nostra natura che sia intrinsecamente buona e solo temporaneamente oscurata da abitudini non salutari, per quanto radicate e negative possano essere.
Per esempio, quando una persona inizia a fumare deve forzarsi, deve vincere l’iniziale rigetto del corpo che reagisce con tosse e altri fenomeni; piano piano si abitua al fumo e dopo un po’ di tempo ed un certo numero di sigarette il fumo diventa un’abitudine: a questo punto diventa difficile smettere perché ci siamo assuefatti. Per smettere dobbiamo abituarci di nuovo alla condizione di partenza che era libera dal fumo.
Allo stesso modo, avendo dimenticato il nostro stato naturale, pensiamo che il nostro stato abituale di dispersione distrazione frenesia sia veramente ciò che siamo, sia la nostra natura essenziale, ma non è così.
Il maestro Chogyal Namkhai Norbu si esprime in questo modo:
Il grande maestro Pa Damba Sangyas disse una volta: “Non sono le circostanze, che sorgono come visione karmica, a condizionare la persona; quello che condiziona è il proprio attaccamento”. Se questo attaccamento deve essere eliminato nel modo più rapido ed efficace, deve entrare in gioco la spontanea capacità di autoliberazione della mente.
Chogyal Namkhai Norbu –Il cristallo e la via della luce
Chogyal Namkhai Norbu –Il cristallo e la via della luce
Quindi la mente ha una sua capacità naturale e spontanea di liberarsi dai condizionamenti, dalle abitudini non salutari: nel prossimo capitolo vedremo come è possibile rendere attiva questa capacità.