Inseparabilità

Se frammentate la realtà scomponendola in materia e mente, prakrti e purusa, considerandoli come entità separate, se accettate l’autorità del dualismo, allora si creano le tensioni. L’”io”, il “me” e l’”altro”, l’accettazione del dualismo conduce alle tensioni e poi ai conflitti, allo sforzo e alla lotta per trovare un equilibrio tra i due, e sopraggiungono i samskara e si crea il vero inferno. Così si dimentica che la vita è indivisibile, è un’interezza non frammentabile.
Vimala Thakar – Lo Yoga oltre la meditazione.

Un problema molto forte, soprattutto per noi occidentali, è che abbiamo un modo di vedere, un approccio alla vita e alla realtà esclusivamente analitico e separativo: dividiamo tutto in pezzi separati, e poi continuiamo a dividere in pezzi sempre più piccoli, nella vana illusione di “dominare”, di controllare almeno quel piccolo pezzo.
Ciò che otteniamo è un tipo di conoscenza che ha perso di vista la totalità, che non sa più mettere insieme e dare un senso ai vari pezzi e che, a livello psicologico, ci fa appunto sentire separati, alienati dalla realtà in cui viviamo.

Come l’acqua che discende dai picchi
perde le proprie energie fra i burroni,
così colui che vede le cose come separate
perde le proprie energie nella loro ricerca.
Raimon Panikkar – Gli inni cosmici dei Veda

Il processo del pensiero logico, analitico si forma attraverso divisioni, separazioni, valutazioni quantitative, procede per esclusione ( O – O, SÌ - NO ), e di conseguenza forma sistemi di credenze e concezioni del mondo tutte basate su polarità contrapposte in continua lotta (ad esempio anima e corpo): cioè c’è sempre una sopravvalutazione di un polo rispetto all’altro o, peggio ancora, una valutazione negativa, una soppressione dell’uno a favore dell’altro.
Ciò determina lo sviluppo di visioni fortemente gerarchiche e unilaterali che non rispettano e non offrono pari dignità alle varie parti del tutto, concezioni basate sulla competizione, la lotta, la guerra, la prevaricazione, la negazione.
A livello psicologico l’individuo si sente separato, isolato dal mondo che lo circonda, e in continua lotta con se stesso e con gli altri.

Viceversa il processo del pensiero analogico correlativo si sviluppa senza separare, ma attraverso una costante visione della totalità e delle inter relazioni presenti nelle sue parti, e prende forma attraverso percezioni qualitative, e per inclusione ( E – E, COSÌ … COME ANCHE … ): di conseguenza forma sistemi di credenze e concezioni del mondo basate su polarità complementari che reciprocamente si integrano (ad esempio Yin e Yang); in questi sistemi viene ricercata l’armonia, l’equilibrio dinamico dei poli, l’accordo, la condivisione e la riconciliazione.
Ne consegue lo sviluppo di concezioni che hanno una visione che rispetta e offre pari dignità alle varie parti del tutto; modi di vedere che mettono al centro la totalità, la globalità, le relazioni reciproche fra le parti.
A livello psicologico l’individuo si sente integrato nel mondo che lo circonda, sente di essere parte della Natura, e tende maggiormente a vivere in armonia con se stesso, con gli altri e con il mondo circostante.
Riconoscere che la realtà è una totalità inseparabile non significa non vedere che ci sono delle dimensioni, dei livelli diversi e delle polarità: al contrario le varie dimensioni, i vari livelli e le polarità sono riconosciute chiaramente, ma sono viste sempre come parte di un tutto in reciproca relazione, sono considerate come parti che si compenetrano, si influenzano e si determinano vicendevolmente.
Paradossalmente le distinzioni, le differenze sono viste molto più chiaramente proprio perché accettate e comprese all’interno di un quadro globale.

Abbiamo quindi due modelli del mondo che corrispondono anche a due modalità di percepire la realtà, a due modalità di fare esperienza: uno è intrinsecamente dualistico e descrive la realtà in termini di “cose”, “sostanze” o “entità” separate e contrapposte, mentre l’altro vede e percepisce il mondo come un sistema unico, globale, organico, nel quale i vari aspetti sono in relazione reciproca e dinamica, un insieme di processi interrelati che si compenetrano.

All’inizio del paragrafo ho parlato in modo un po’ improprio di “processo del pensiero analogico correlativo”, ma in realtà ciò a cui faccio riferimento è al di là del pensiero e può essere più propriamente definito una intuizione, uno stato di coscienza, una esperienza, e soprattutto un modo di sentire e di vivere la vita.
Per noi occidentali che ormai da secoli basiamo la nostra esistenza sul primato della razionalità e del linguaggio non è affatto facile riconciliarci con questo modo di vedere che però è del tutto naturale e “praticato” in oriente e soprattutto da quelle popolazioni che ancora vivono in modo semplice e in armonia con la Natura, oppure dai mistici di ogni tempo.
Vediamo come viene descritto da Raimon Panikkar:

Il nome classico della spiritualità alla quale facciamo riferimento è advaita …
La parola viene tradotta con “non dualità”, mentre a rigore dovrebbe esser tradotta con “a-dualità”. In effetti, l’advaita non è negativo ma privativo; non è la negazione di dvaita, della dualità, ma la sua assenza. …
L’intuizione advaita non consiste nell’affermare l’unità né nel negare la dualità, ma precisamente, con una visione che trascende l’intelletto, nel riconoscere l’assenza della dualità alla base di una realtà che in se stessa manca di dualità, cioè non è numerica, dato che non ha un due. Ossia che né l’unità né la dualità corrispondono alla struttura propria della realtà. …
L’advaita rappresenta il superamento del pensiero dialettico perché sta a significare la rinuncia all’intelligibilità razionale come criterio di realtà e anche di verità. …
Non si nega la dualità (non dualismo) ma si constata l’assenza di questa dualità (a dualismo) …
Raimon Panikkar – Il dharma dell’induismo. Una spiritualità che parla al cuore dell’occidente.

Cerchiamo di vedere le implicazioni di quanto detto ripercorrendo sinteticamente ciò che è stato esposto nei capitoli precedenti, e mostrando come questo modo di vedere non separativo si applichi a tutti gli aspetti del cammino interiore e, in generale, a tutta la nostra vita.
Ad esempio ci sono molte tradizioni spirituali, molti cammini di conoscenza come il Buddhismo, lo Yoga, il Taoismo, il Cristianesimo, solo per menzionare quelli di cui ho una qualche conoscenza personale: ognuno di essi ha delle caratteristiche, delle peculiarità, ma è importante non separarli, non metterli in antagonismo, in concorrenza l’uno con l’altro.
Se siamo condizionati dalla mente che giudica, dalla mente che separa, allora potremmo pensare: “io seguo unicamente il Buddhismo, le altre tradizioni spirituali non hanno una vera comprensione; ma non tutto il Buddhismo ovviamente, mi interessa solo quello Mahayana che è il solo che permette di andare veramente all’essenza; lo zen però mi sembra un po’ strano, non lo capisco, pratico solamente il Buddhismo Tibetano, l’unico ad avere preservato i veri insegnamenti del Buddha; all’interno del Buddhismo Tibetano mi interessa solo lo Dzog chen, gli altri insegnamenti sono troppo poco elevati; però sono allievo esclusivamente del maestro Xyz, gli altri insegnanti non hanno la capacità di trasmettere una reale conoscenza; tra gli insegnamenti del maestro Xyz, pratico unicamente gli insegnamenti più elevati, gli altri non sono essenziali”; e così di seguito.
Invece di aprirci alla Vita ci chiudiamo sempre di più in una piccola “scatola spirituale”, che diventa sempre più piccola nella misura in cui aumenta l’attaccamento e l’avversione, e non conprendiamo veramente nulla né di noi stessi né di come si segue un cammino spirituale.

La pioggia è terminata, le nubi sono svanite, e il cielo è di nuovo chiaro.
Se il tuo cuore è puro, allora tutte le cose nel tuo mondo sono pure.
Abbandona questo mondo effimero, abbandona te stesso,
Allora la luna e i fiori ti guideranno lungo la Via.
Ryokan – One Robe One Bowl. The Zen poetry of Ryokan (traduzione personale dall’inglese)

Così come non separiamo le varie tradizioni spirituali e quindi possiamo attingere liberamente da tutte, allo stesso modo non separiamo artificiosamente la pratica spirituale dalla vita quotidiana.
Nella nostra cultura siamo abituati a dividere la nostra vita in compartimenti stagni, in momenti separati, quali ad esempio il lavoro, il divertimento o lo spazio per le relazioni personali e intime, a cui attribuiamo caratteristiche diverse e diversi “doveri”.
Lo spazio per la pratica interiore, nei rari casi in cui è presente, è molto spesso sentito e vissuto come un momento a se stante, non integrato nella totalità della propria esistenza, ma la ricerca interiore non può essere relegata in una nicchia della nostra vita, perché così facendo aumentiamo la sofferenza e non traiamo veramente beneficio dalla pratica.
Se all’inizio è del tutto accettabile, nel contesto della nostra società, considerarsi praticanti perchè seguiamo due lezioni di yoga a settimana e magari leggiamo qualche libro spirituale, ovviamente questo è solo l’inizio: piano piano la pratica interiore, se veramente compresa e attuata, può e deve trasferirsi anche nella vita di tutti giorni. Questo è un processo che avviene gradualmente e naturalmente, man mano che comprendiamo la reale portata, il reale significato di tradizioni spirituali quali il Buddhismo o lo Yoga, e ovviamente non può essere forzato in nessun modo, ma accompagnato e indirizzato.
Quando la pratica è integrata nella quotidianità e la vita viene vissuta alla luce della nostra ricerca interiore, certamente continuano a essere presenti sia momenti di gioia e di benessere e sia momenti di difficoltà e di sofferenza, ma tutti sono integrati nella via, e il processo del nostro cammino spirituale diventa più armonico e naturale e può manifestare tutte le sue potenzialità.

Nella nostra cultura è molto forte e molto radicata la divisione all’interno di noi stessi e quella verso l’esterno: all’interno separiamo la mente dal corpo, il soggetto dall’oggetto, colui che conosce da ciò che è conosciuto, e, verso l’esterno viviamo un continuo conflitto tra individuo e società, essere umano e natura.
Ma come abbiamo visto mente e corpo, e in generale i vari aspetti dell’essere umano, dai più grossolani ai più sottili, non sono separati, ma si influenzano, si condizionano e si compenetrano reciprocamente.
E nell’esperienza contemplativa, se all’inizio può essere utile sviluppare ciò che viene chiamato in alcune tradizioni “il testimone”, cioè una qualità di attenzione osservazione in cui si percepisce una certa separazione tra colui che conosce e ciò che è conosciuto, è importante ricordare e avere fiducia che prima o poi si possa sperimentare che questa sepazione in realtà è una illusione, non c’è, e che entrambi, colui che conosce e ciò che è conosciuto, si dissolvono nel semplice conoscere.
L’apparente contrasto tra individuo e società, essere umano e natura è così descritto da Joanna Macy:

… secondo la prospettiva della causalità reciproca, il sé individuale è sia unico che inseparabile dalla sua matrice naturale e sociale. ...
Il sé individuale si presenta come un processo, un modello di eventi psicofisici. Poiché si forma attraverso interazioni sensoriali, affettive e cognitive con il suo ambiente, non può essere separato dal suo contesto naturale e sociale.
Joanna Macy – Mutual causality in Buddhism and general systems theory (traduzione personale dall’inglese).

Anche se fin dall’inizio non esiste nulla che sia intrinsecamente separato, a sè stante, immutabile, ciò non di meno continuiamo ad identificarci con l’illusione di qualcosa di separato che chiamiamo “io”, e che sembra controllare e dirigere la nostra vita. Ma è veramente così? Siamo veramente questo “Io” separato ?
Forse sarebbe più salutare e appropriato pensare che siamo l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo; siamo la mutevolezza delle percezioni sensoriali che di momento in momento sperimentiamo, le relazioni che abbiamo, le azioni che compiamo; siamo il flusso continuamente cangiante dei pensieri e delle emozioni. E simultaneamente siamo la consapevolezza che accoglie tutto ciò, siamo il silenzio vivo e ricettivo che talvolta sperimentiamo, siamo l’appagamento interiore che di tanto in tanto riempie il nostro cuore, siamo il mistero della vita che ci avvolge e ci compenetra e di cui è difficile parlare.C’è un altro modo di vedere molto radicato e che ha effetti disastrosi sul mondo e sulla nostra vita: è quello che separa i mezzi dagli obiettivi e che afferma che il fine giustifica i mezzi, cioè che possiamo adottare qualsiasi mezzo per ottenere ciò che vogliamo o che pensiamo sia giusto.
Ed è assurdo, ma anche abbastanza comune, che persino nella ricerca interiore si faccia questo errore e si usino mezzi come la repressione, la coercizione, la negazione per ottenere ciò che viene chiamato benessere o liberazione.
Parafrasando un detto zen possiamo dire che i mezzi e i fini non sono né uno né due: se da un lato può essere utile avere una chiara comprensione e, in qualche modo, distinzione tra il mezzo usato e il fine che si vuole raggiungere, e quindi non confonderli (non sono uno); d’altra parte è di maggiore importanza comprendere che essi sono legati vicendevolmente, sono in una relazione reciproca molto stretta (non sono due): la qualità dei mezzi usati influisce e determina il risultato ottenuto, e il fine cercato può essere perseguito solo con mezzi appropriati, con mezzi che hanno le stessa caratteristiche, le stesse peculiarità del fine.
Ecco come si esprime a questo proposito Krishnamurti:

Ma il mezzo e il fine non sono due cose diverse, sei d’accordo? Sicuramente il fine e il mezzo sono uno: il mezzo è il fine, l’unico fine; poiché non esiste alcuno scopo separato dal mezzo. La violenza come mezzo per arrivare alla pace è solamente la perpetuazione della violenza. Tutto ciò che conta non è il fine, ma il mezzo: e il fine è determinato dal mezzo, non è separato, non è altro dal mezzo.
Krishnamurti – Il silenzio della mente.

Abbiamo visto anche come il fine, l’obiettivo della nostra ricerca interiore non è situato in qualche luogo fisico da raggiungere, o in un non ben definito aldilà, e nemmeno si trova in un qualche futuro non ben determinato, ma è gia presente “qui e ora”, perchè non è separato da ciò che già siamo, ma è proprio la nostra natura, ciò che siamo più autenticamente e primordialmente.
In qualsiasi momento e in qualsiasi luogo ci troviamo, possiamo sempre risvegliarci al “qui e ora”, un non luogo e un non tempo che sempre è.

Nella tradizione del Buddhismo Chan, questa esperienza di risveglio, di risveglio ad una totalità non divisibile, all’inseparabilità di soggetto e oggetto, viene indicata dalla famosa poesia:

Nel cielo gli uccelli sono svaniti
E ora anche l’ultima nuvola si dissolve
Sediamo insieme, la montagna ed io
Fino a che solo la montagna rimane.
Li Po